sabato 20 novembre 2010

Qualità educativa e sviluppo del territorio.

Un sistema educativo di qualità per lo sviluppo economico e sociale del nostro territorio.

Paolo Rebaudengo

Forum scuola del PD bolognese. 10 novembre 2010

Quale scuola vogliamo per questo paese? Quale sistema educativo, formativo per i bambini, per gli adolescenti, per i ragazzi? Quale università e quale formazione professionale? Quale educazione e formazione continua?
Per quale lavoro, per quale attività, per quale vita, per quale condizione umana, per quale speranza di felicità, per quale possibilità che ciascun bambino e ciascuna bambina possano diventare il o la Presidente della Repubblica, come diceva la voce di fondo nel documentario “nessuno ci ascolta” del Comune di Bologna sulla ricostruzione della cittàe della scuola nell’immediato ultimo dopoguerra?
Qualcuno di voi saprebbe citare un Paese del pianeta che abbia recentemente deciso di ridurre l’età minima per l’ingresso al lavoro? E’ successo in Italia, riducendola dai 16 anni (in alcuni Paesi europei è a 18) ai 15. Perché è stato fatto? Perché c’è un florido mercato del lavoro minorile? Perché le imprese chiedono, senza trovarli, molti giovani? Assolutamente no, anzi la disoccupazione giovanile è drammaticamente alta, intorno al 30% (è superiore al 20% anche a Bologna).
La ragione è più semplice e anche più penosa: tenere a scuola i ragazzi e le ragazze il meno possibile, specie se di famiglie povere, figli di immigrati, di operai, di disoccupati, che devono andare a lavorare il prima possibile. E così si stabilisce che il contratto di apprendistato possa assolvere l’obbligo scolastico sin dai 15 anni, cancellando l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni per tornare alle norme precedenti, definite dalla legge Moratti: davvero un grande passo indietro! Fu il Governo Prodi nella Finanziaria 2007 ad innalzare l’obbligo a 16 anni e quindi, conseguentemente, l’accesso al lavoro da 15 a 16 anni. E nello stesso provvedimento di legge del 19 ottobre 2010 si dice che la formazione prevista dai contratti di apprendistato può essere svolta interamente in azienda, mentre peraltro risulta che solo il 20% degli apprendisti partecipi a corsi formativi.
Abbiamo anche noi della sinistra una responsabilità su tutto ciò? Certo, tanto come partito di opposizione (quale attenzione a questi problemi e all’allarme lanciato dalla Cgil? E quale lavoro politico con le ooss? E quali proposte?). E anche da partito di governo, avendo lasciato il guazzabuglio delle norme sull’obbligo di istruzione, obbligo formativo, diritto-dovere, senza un lavoro per dare sistematicità alle diverse norme; proclamando almeno dieci anni di scuola per garantire a tutti un diploma o almeno una qualifica, quando ciò avrebbe dovuto significare almeno undici anni di scuola (cinque di elementari, tre di medie e tre di professionali) per conseguire la qualifica, o tredici per conseguire un diploma. E lasciando il settore delle professionali nel doppio girone di serie B, nei corsi statali, e di serie C in quelli regionali, e senza concludere nulla sulla formazione superiore non accademica.
E sulle due culture del nostro sistema educativo cosa abbiamo fatto? Non parliamo del balbettio sulla riforma dell’Università e sull’inganno dell’università di massa.
Dice Luigi Berlinguer: Il lavoro ed il sapere sono due facce della stessa medaglia: sono la fonte produttiva per eccellenza. Non c’è vera libertà ed effettiva uguaglianza, oggi, senza sapere, senza una sua ampia diffusione ed affermazione. Una società equa ed inclusiva, una democrazia matura ed evoluta, rispettosa della persona, delle sue vocazioni, della sfera dei suoi diritti è oggi possibile soltanto se si garantisce il più ampio accesso al sapere.
Dice ancora Luigi Berlinguer: La nuova scuola deve dare sapere, utilità, competenze. Essa deve dare di più di quello che chiede il mercato del lavoro (ma cosa chiede? aggiungo io) mirare costantemente ad allargare l’offerta formativa. La nuova scuola è la casa dell’utile e del bello, della responsabilità sociale e della creatività. L’alunno deve sentire che è la sua casa, aperta tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. E per farla sentire veramente come propria, occorre che la nuova scuola sia strutturata su basi nuove, su spazi aperti, che creino anche fisicamente il senso di una comunità di apprendimento, e che si svolga con tempi flessibili, lunghi, articolati.
Siamo d’accorod, ma come, dove, per chi, con quali risorse?
Si parla spesso di competitività di un Paese, di questi ultimi tempi, per dire che l’Italia lo è sempre meno. Ma cosa sia, se e come si misuri resta nel vago. Recentemente ci ha pensato la Commissione europea, con un Report di quasi trecento pagine, a individuare una “indice di competitività regionale”, attraverso un indicatore basato su più fattori, per tutte le 268 regioni dei 27 Paesi membri. Vi è infatti un crescente interesse per la dimensione territoriale e istituzionale regionale come chiave per la crescita economica e la creazione di benessere. La competitività territoriale è la capacità dell’economia e del sistema sociale di quel territorio di attirare e tenere nel tempo imprese con una fetta di mercato stabile o crescente e contemporaneamente produttrici di standard di vita stabili o in crescita per le persone che vi prendono parte.

La posizione dell’Emilia-Romagna è al 121° posto della classifica europea, seconda regione italiana, dopo la Lombardia (al 95° posto), mentre metà delle regioni italiane si distribuiscono tra la 180° e la 235° posizione. Esaminando singolarmente gli undici indicatori che compongono l’indice possiamo comprendere perché la nostra regione veda, in Europa, 120 regioni davanti (e 147 dietro). Si constatata che per l’indicatore “Istituzioni” (che tiene conto del quadro regolatorio, del funzionamento della burocrazia, del livello della corruzione ecc.), in assenza di sufficienti dati regionali, vengono adottati quelli nazionali, in base ai quali l’Italia è al 24° posto su 27 Paesi!

Anche per la qualità dell’istruzione primaria e secondaria (misurata attraverso i dati dei test di lettura, matematica, scienza dei quindicenni) si adottano i dati nazionali, e anche qui l’Italia fa peggio di quasi tutti gli altri Paesi (è al 23° posto).

Appesantita in partenza da questi dati nazionali, l’Emilia-Romagna risale la classifica grazie all’indicatore relativo all’efficienza del mercato del lavoro (tassi di occupazione, disoccupazione, disoccupazione femminile, mobilità e produttività del lavoro, divario uomini – donne nell’occupazione e nella disoccupazione, politiche del lavoro); a quello della “dimensione del mercato” (PIL, retribuzione dei lavoratori dipendenti, reddito disponibile netto pro-capite, dimensione potenziale del mercato misurata con riferimento al PIL e alla demografia); e a quello della “sofisticatezza delle imprese”. In un’economia regionale il livello di sofisticatezza delle imprese dà una misura della sua produttività, della sua potenziale capacità di rispondere alle pressioni competitive, è il frutto della specializzazione in settori ad alto valore aggiunto, del tasso di occupazione in settori come quelli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, degli investimenti diretti dall’estero che contribuiscono a rafforzare il capitale e la dotazione tecnologica e il numero delle imprese, dell’interconnessione tra imprese e fornitori, della concentrazione di risorse umane specializzate in settori ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia, della disponibilità di venture capital e dell’accesso al capitale finanziario.

Anche l’istruzione superiore e la formazione continua costituiscono un indicatore significativo per le economie regionali più avanzate, come la nostra, poiché mentre la globalizzazione annulla le forme tradizionali di vantaggio competitivo, divengono sempre più importanti le caratteristiche economico-culturali del territorio ove sono localizzate le imprese. Ma anche in questo caso, la collocazione regionale è fortemente condizionata dalle politiche nazionali.

L’Italia è tra i Paesi europei con il maggior divario tra le proprie regioni. Ecco perché scuola e mezzogiorno restano due questioni nazionali prioritarie. La nostra regione rischia di pagare il prezzo più alto, poiché le conseguenze delle politiche nazionali della scuola, dell’Università e della ricerca, della cultura, del fisco insieme alle inefficienze del sistema giudiziario e all’alto livello della corruzione costituiranno un grave impedimento a sviluppare le nostre potenzialità, facendoci fare passi indietro nel cammino della crescita economica e sociale.