venerdì 30 dicembre 2011

La scuola per tutto l’arco della vita, per il lavoro e lo sviluppo sostenibile

Paolo Rebaudengo*

Nonostante il susseguirsi di riforme e innovazioni, il sistema educativo italiano non sembra riuscire a rispondere adeguatamente alle molteplici esigenze espresse dal tessuto sociale ed economico, faticando a conquistare quella posizione di centralità, vuoi in funzione dello sviluppo del Paese, vuoi per sostenere e aiutare i momenti di crisi, quale quello che stiamo attualmente vivendo (Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2011, parte seconda 2.3 - un sistemo formativo fuori centro)


Quale scuola vogliamo per questo Paese? Quale sistema educativo e formativo per i bambini, gli adolescenti, i ragazzi? Quale università e quale formazione professionale? Quale educazione e formazione continua?
Per quale lavoro, quale attività, quale vita, quale condizione umana, quale speranza di felicità, quale possibilità che ciascun bambino e ciascuna bambina possa diventare Presidente della Repubblica, come dice la voce fuori campo del documentario “Nessuno ci ascolta” prodotto dal Comune di Bologna sulla ricostruzione della città e della scuola nell’immediato ultimo dopoguerra?
Qualcuno saprebbe citare un Paese che abbia deciso di ridurre l’età minima per l’ingresso al lavoro? E’ successo in Italia con il Governo di centro-destra caduto nel novembre 2011, riducendola dai 16 anni (in alcuni Paesi europei è a 18) ai 15. E nello stesso provvedimento di legge del 19 ottobre 2010 si dice che la formazione prevista dai contratti di apprendistato può essere svolta interamente in azienda, mentre risulta che solo il 20% degli apprendisti partecipi a corsi formativi. Perché è stato fatto? Perché le imprese chiedono, senza trovarli, molti giovani? Assolutamente no, anzi la disoccupazione giovanile è drammaticamente alta, anche a Bologna. La ragione è più semplice e anche più penosa: tenere a scuola i ragazzi e le ragazze il meno possibile, specie se di famiglie povere, figli d’immigrati, di operai, di disoccupati. E così si stabilisce che il contratto di apprendistato possa assolvere all’obbligo scolastico sin dai 15 anni, cancellando l’innalzamento dell’età minima di accesso al lavoro a 16 anni fissata dal Governo Prodi con la Legge Finanziaria 2007 in relazione all’innalzamento dell’obbligo scolastico ad almeno 10 anni di frequenza.

L’iscrizione alla scuola secondaria di secondo grado è ormai generalizzata ma il tasso di diploma non supera il 75%, con molti abbandoni nel primo biennio (proprio quello sul quale abbiamo inutilmente e a lungo discusso sulla necessità di dargli unitarietà – se non unicità- proprio per contrastare questo fenomeno). E se il 65% dei diplomati si iscrive all’Università, poi una matricola ogni cinque non arriva alla laurea. Secondo l’ultima indagine Unioncamere sulla domanda di lavoro delle imprese private, per il 33% di assunzioni previste non è richiesta alcuna formazione specifica, preferendo guardare alle sole esperienze pregresse: a dimostrazione dell’arretratezza delle imprese e/o della scuola? (l’argomento meriterebbe un ampio approfondimento). Inoltre siamo tra i Paesi con il minor numero di laureati e, contemporaneamente, il Paese con il tasso più basso (il 76%) di occupazione per i laureati, mentre il loro tasso di disoccupazione è salito nel solo biennio di crisi 2007-2009 (che però perdura….) dall’11 al 16% (e al 18% per gli specialistici).
Una recente indagine dell’Istat segnala che quasi la metà dei laureati e dei diplomati al primo impiego sono sotto inquadrati: è semplicemente un fenomeno di “sfruttamento” da parte delle imprese oppure d’inizio della carriera molto al di sotto delle competenze anche per miopia e inerzia dell’organizzazione, oppure di divario tra titoli di studio e competenze necessarie o, infine, di un mix di queste cause?

Gli intenti del recente decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167 sull’apprendistato, che ha ricevuto plausi da destra e da sinistra, dai sindacati dei lavoratori e delle imprese, sono senz’altro positivi: attraverso di esso i giovani possono acquisire sul lavoro, dai 15 anni di età, qualifiche e diplomi professionali, lauree e perfino dottorati. Il nuovo apprendistato è “un contratto di lavoro a tempo indeterminato” – seppure preveda al suo termine la “libera recedibilità” – “finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani. Assume tre possibili tipologie:
a) apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (15 – 25 anni, durata massima 3/4 anni);
  b) apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere (18 – 29 anni, durata massima 3 anni, 5 per il settore dell’artigianato). La formazione sarà definita dalla contrattazione collettiva e dovrà integrarsi con la formazione pubblica regionale, interna o esterna all’azienda, per un monte ore complessivo per tutto il triennio pari a 120 ore;
c)  apprendistato di alta formazione e ricerca (18 – 29 anni).1
Tutto ciò richiede che ogni impresa sia un’«impresa formativa» e ben sappiamo quanto ne siamo lontani: questa prospettiva potrebbe peraltro risultare interessante o potrebbe/potrà essere perseguita, all’interno di un sistema dell’istruzione e formazione professionale iniziale e continuo collegato organicamente con le imprese, per la pratica dell’alternanza scuola-lavoro, ove esse si qualifichino per svolgere sul serio l’azione formativa richiesta dal “nuovo” apprendistato e, forse, così, migliorare anche la propria organizzazione e aprirsi anche ai suggerimenti dei giovani, come succede in Germania. Tuttavia appare evidente il divario tra le esigenze di una transizione dalla scuola a un lavoro qualificato e ben retribuito (che richiederebbe una riqualificazione dell’intero sistema della scuola secondaria) e la norma sull’apprendistato, seppure sostenuta dalle intese con le Regioni e con le parti sociali (la sola segreteria confederale della Cgil, firmataria dell’intesa, esprime il dissenso per l’avvio dell’apprendistato già dai 15 anni di età e per il suo utilizzo anche per la riqualificazione dei lavoratori in mobilità), specialmente se consideriamo i dibattiti, le ricerche, le iniziative e gli investimenti adottati in tanti altri Paesi in Europa, in Asia, in America in questo campo.

Dopo la riforma Moratti, il Ministero Fioroni, la riforma Gelmini, coesistono le norme su obbligo scolastico e obbligo formativo, diritto-dovere, obbligo di istruzione, mentre è avvenuto l’innalzamento (col centro-sinistra) e la riduzione (col centro-destra) degli anni effettivi di scuola obbligatoria. La prudenza (e le difficoltà di bilancio, già allora) del centro sinistra aveva portato a dieci anni di scuola (minimo) per garantire a tutti un diploma o almeno una qualifica, quando ne servivano undici per arrivare almeno alla qualifica, così che (forse) è stato più facile per il centro-destra tornare indietro sino alla sola terza media. Ed è stato lasciato il segmento dell’istruzione professionale nel doppio girone infernale, quello di serie B, nei corsi statali, e quello di serie C nei corsi regionali, salvo le iniziative regionali sulla formazione superiore post-diploma non accademica, unica vera innovazione positivo dell’intero sistema, che, sia pure giunta (non certo per colpa delle Regioni) con tanti anni di ritardo, consente di guardare con maggiore speranza al futuro della f.p. quantunque affrontata dal tetto anziché dalle fondamenta.

E sulle due culture del nostro sistema educativo non sono stati fatti molti passi avanti. Dice Luigi Berlinguer: “Il lavoro ed il sapere sono due facce della stessa medaglia: sono la fonte produttiva per eccellenza. Non c’è vera libertà ed effettiva uguaglianza, oggi, senza sapere, senza una sua ampia diffusione ed affermazione. Una società equa e inclusiva, una democrazia matura ed evoluta, rispettosa della persona, delle sue vocazioni, della sfera dei suoi diritti è oggi possibile soltanto se si garantisce il più ampio accesso al sapere. La nuova scuola deve dare sapere, utilità, competenze. Essa deve dare di più di quello che chiede il mercato del lavoro, mirare costantemente ad allargare l’offerta formativa. La nuova scuola è la casa dell’utile e del bello, della responsabilità sociale e della creatività. L’alunno deve sentire che è la sua casa, aperta tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. E per farla sentire veramente come propria, occorre che la nuova scuola sia strutturata su basi nuove, su spazi aperti, che creino anche fisicamente il senso di una comunità di apprendimento, e che si svolga con tempi flessibili, lunghi, articolati”.

Si parla spesso di competitività a livello del Paese, per dire che l’Italia lo è sempre meno. Ma cosa sia, se e come si misuri resta nel vago. Recentemente la Commissione europea, con un Report che individua un “indice di competitività regionale”, ha misurato il livello delle 268 regioni dell’UE, attraverso indicatori per ciascuno di undici “pilastri” fondamentali, tra i quali di grande importanza tre che riguardano la qualità della scuola primaria e secondaria, la qualità di quella universitaria e della formazione continua, l’efficienza del MdL.
La competitività territoriale è la capacità dell’economia e del sistema sociale di quel territorio di attirare e tenere nel tempo imprese con una fetta di mercato stabile o crescente e contemporaneamente produttrici di standard di vita stabili o in crescita per le persone che vi prendono parte, il tasso di occupazione in settori come quelli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, gli investimenti diretti dall’estero che contribuiscono a rafforzare il capitale e la dotazione tecnologica e il numero delle imprese, dell’interconnessione tra imprese e fornitori, la concentrazione di risorse umane specializzate in settori ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia.

La formazione continua costituisce un indicatore significativo per le economie regionali più avanzate, poiché mentre la globalizzazione annulla le forme tradizionali di vantaggio competitivo, divengono sempre più importanti le caratteristiche culturali del territorio ove sono localizzate le imprese. L’Italia è tra i Paesi europei con il maggior divario tra le proprie regioni. Ecco perché scuola e mezzogiorno restano due questioni nazionali centrali e prioritarie.

La nostra regione è forse quella che ha pagato il prezzo più alto della scellerata politica del governo Berlusconi-Tremonti, specie per la scuola, l’Università, la ricerca e la cultura, la cui strozzatura, insieme alle inefficienze del sistema giudiziario e all’alto livello della corruzione ha costituito il più grave impedimento allo sviluppo delle nostre potenzialità, facendoci fare passi indietro nel cammino dello sviluppo economico e sociale.
A livello internazionale è segnalata l’arretratezza del nostro Paese, anche nelle regioni più sviluppate, nel campo dell’educazione degli adulti, della formazione continua e ricorrente. Più in generale, l’abissale distanza tra il sistema “vocational” (di formazione professionale) italiano e quelli degli altri Paesi industriali non è colmabile senza un cambiamento radicale dell’ordinamento, un superamento delle “due culture” e della separazione tra lavoro manuale e intellettuale, il riconoscimento che non c’è produzione materiale senza contenuti culturali, la valorizzazione della scienza, della tecnica e della tecnologia in tutti gli indirizzi di studio, liceali, tecnici e professionali, la valorizzazione del lavoro.
Gli ITS dovranno essere sviluppati: ciò richiede che nelle Fondazioni di Partecipazione che danno vita agli ITS aderisca un maggior numero di imprese (di tutto il territorio regionale e/o di dimensione nazionale o internazionale), di elevata qualità tecnologica e attive nella ricerca e sviluppo e con potenziali sufficienti a far prevedere l’assorbimento dei diplomati; esse dovranno costituire un positivo e valido ambiente formativo grazie all’impegno di tutor appositamente formati, tecnici e dirigenti, a un’alta qualità dell’organizzazione, a una cultura industriale e tecnologica diffusa, alla formalizzazione delle procedure, alla qualità e quantità di investimenti nello sviluppo del personale e nella sua formazione e aggiornamento continuo, ai rapporti internazionali; esse dovranno essere disponibili a condividere con le altre imprese la formazione dei giovani, in accordo e coordinamento con l’ITS e con i soggetti partner universitari; l’ITS, insieme ai Dipartimenti universitari, dovrà svolgere un’efficace azione di orientamento dei candidati all’iscrizione e dei diplomandi; dovrà essere definito un curriculum di studio nettamente alternativo a quello della laurea triennale; una parte significativa dei docenti dovrà essere costituita da visiting professor provenienti da analoghe istituzioni estere di alto livello; il numero degli ITS si dovrà espandere sino a coprire le esigenze di formazione superiore professionalizzante non accademica in tutti i settori economici.
Occupazione e sviluppo economico e sociale del territorio sono significativamente legate alla qualità del sistema educativo e della formazione professionale iniziale e continua e al numero di giovani in possesso di almeno un diploma o una qualifica. Non c’è settore economico, in agricoltura, nell’industria, nei servizi, nel settore privato, pubblico o cooperativo, i cui addetti non abbiano l’esigenza di partecipare periodicamente ad attività formative di qualificazione/riqualificazione e a piani di sviluppo professionale.
Il sistema formativo di un Paese dovrebbe trovare una coerenza complessiva, dal livello prescolare, a quello della primaria, della secondaria di primo e di secondo grado, sino all’istruzione terziaria accademica e non. Come è riconosciuto a livello internazionale, l’incidenza dell’educazione in età infantile ha una ripercussione significativa in tutti i gradi scolastici successivi, contribuendo in modo importante all’uguaglianza e all’inclusione e al superamento, almeno parziale, dei divari derivanti dall’ambiente socio-economico di appartenenza dei bambini e delle loro famiglie.
Anche l’occupazione e la sua qualità, come la stessa qualità dello sviluppo economico di un Paese è condizionata profondamente dall’intero assetto del sistema scolastico, dall’asilo-nido all’educazione ricorrente e continua degli adulti, e dai suoi risultati qualitativi e quantitativi nei termini di quanti giovani e con quali risultati e in quanti anni di studio pervengono a una qualifica, a un diploma, a una laurea.
I confronti internazionali, a partire dai famosi test Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment), finalizzati ad accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati nella lettura, nella matematica e nelle scienze, hanno spinto diversi Paesi (in primis la Germania), nel 2000, primo anno di pubblicazione dei risultati di confronto, rivelatisi inaspettatamente, per quei Paesi, molto più bassi di quanto si aspettassero, a intraprendere un’analisi più approfondita di confronto con i Paesi collocati ai primi posti nella graduatoria internazionale. La reazione, in altre parole, non è stata quella di colpevolizzare gli insegnanti o gli studenti o le famiglie o di tagliare i costi “considerato che a fronte di risultati così modesti tanto vale spendere meno”, come è successo da noi, bensì di verificare quali politiche e provvedimenti siano utilizzabili (tenuto conto delle differenze di contesto) tra quelle adottate dai Paesi meglio collocati nella graduatoria (come la Cina nelle regioni di Shanghai e di Hong-Kong, il Canada, la Finlandia, il Giappone, Singapore) o, nel 2009 (gli USA), in occasione dell’ultima rilevazione, per imparare da quelli che hanno realizzato significativi miglioramenti rispetto a nove anni prima (Germania, Polonia, Brasile). Questa analisi, condotta da un numeroso team di esperti, accademici, responsabili ministeriali a livello internazionale, ha prodotto lo studio “Strong Performers and Successful Reformers in Education. Lessons from PISA for the United States ” promosso dal Ministro dell’Istruzione del Governo federale degli USA Arne Duncan e dal Segretario Generale dell’OCSE Angel Gurria, pubblicato il 17 maggio 2011

La preoccupazione di Paesi come USA e Germania risiede nella consapevolezza che la leadership economica a livello internazionale non può coesistere con un sistema scolastico più scadente di quello di Paesi che a quella leadership contendono il primato. E che anche i posti di lavoro (per numero, qualità e livelli retributivi) sono legati alla qualità del sistema scolastico e sono sottoposti a un’inedita concorrenza internazionale. I confronti economici a livello internazionale, assai più che sui costi del lavoro, avvengono e avverranno sempre più sui vantaggi comparativi nelle conoscenze e nella qualità del fattore umano; la domanda di personale con basse professionalità è destinata a ridursi e già oggi si assiste, nei Paesi con livelli salariali alti, alla crescita della domanda più veloce rispetto all’offerta di persone con alti profili professionali.
Se ne deduce che se è utile puntare a migliorare gli standard nazionali del sistema dell’istruzione, ancora più lo è guardare a quelli dei Paesi con i migliori risultati a livello internazionale, con particolare riferimento ai parametri relativi alla partecipazione della popolazione ai processi educativi, alla qualità, alla equità, all’efficienza. Tutti i Paesi occidentali si devono oggi confrontare con una crescente disuguaglianza anche tra i giovani, in ragione del lungo periodo di liberismo reagan-thatcheriano, dei flussi migratori e dei cambiamenti economico-sociali. La scuola è il luogo ove almeno in parte le disuguaglianze possono essere corrette, attraverso una distribuzione delle risorse (economiche e umane) che privilegi le scuole frequentate da studenti svantaggiati, per consentire di avere in quelle scuole meno studenti per classe, gli insegnanti migliori, anche dal punto di vista delle capacità relazionali, strutture confortevoli, laboratori, aule e palestre di standard elevato, tempo-scuola sufficiente a dare un aiuto personalizzato agli studenti, personale in grado di presidiare dal punto di vista psicologico e sociale i problemi di apprendimento, relazionali, personali.

Di particolare interesse sono i rilievi dai quali risulta una correlazione positiva tra la dimensione dell’autonomia scolastica, dei docenti, del dirigente scolastico e i risultati formativi. Al contrario, non risulta alcuna correlazione positiva tra scuole o classi omogenee dal punto di vista socio-culturale e risultati scolastici, semmai il contrario. Si verifica infatti che quanto prima gli studenti debbono scegliere i percorsi di studio differenziati tanto più aumenta l’impatto del background socio-economico sui risultati: in altre parole quanto prima si abbandonano gli indirizzi comuni tanto più le ineguaglianze vengono rafforzate mentre gli studenti più svantaggiati vengono tendenzialmente instradati verso opportunità di apprendimento di qualità più bassa rispetto ai loro compagni meno svantaggiati.

La scuola che “orienta” o sposta studenti “difficili” verso scuole “più facili” ottiene apparentemente un vantaggio, ma ciò ha una ricaduta negativa per il sistema scolastico complessivo, anche a causa dell’approfondimento delle differenze tra le scuole. Inoltre ove ciò costituisce una politica sistematica, gli insegnanti di quella scuola disimparano (o non imparano) a gestire classi disomogenee, con ricadute negative nei processi di apprendimento di tutti gli allievi. Per questo motivo, al contrario di quanto avviene nelle nostre scuole, in Cina è ritenuto preferibile avere classi relativamente numerose per garantire la presenza di un ampio spettro di capacità degli studenti, poiché ciò consentirebbe agli insegnanti, che praticano una didattica basata sulle domande degli studenti, di migliorare il processo di apprendimento di tutta la classe.

In Germania negli anni 2003 e 2004 sono state realizzate diverse riforme, tra le quali la diffusione del tempo pieno, per il quale sono stati investiti quattro miliardi di euro, l’innalzamento degli standard educativi in tutti i Länder, l’incremento dell’autonomia delle scuole e dei docenti, l’aggiornamento dei docenti e il miglioramento del loro trattamento economico. Standard educativi nazionali sono stati definiti per l’ultimo anno delle elementari in matematica e in tedesco; per l’ultimo anno della secondaria di primo grado in matematica, tedesco, inglese o francese, biologia, chimica e fisica; per l’ultimo anno della secondaria di secondo grado nelle stesse materie e per la seconda lingua straniera. Particolare attenzione è stata posta al miglioramento della scuola dell’infanzia (i Kindergarten ideati all’inizio dell’800 da Friedrich Fröbel), garantita per legge a tutti i bambini per tre anni, come luogo educativo principe per lottare contro lo svantaggio economico-sociale e per garantire le premesse di pari opportunità nei gradi successivi della scuola e della vita, anche attraverso programmi di istruzione pre-elementari nel campo matematico, linguistico, della scrittura, della comunicazione, scienze naturali, arte e attraverso specifici corsi di tedesco finanziati per i bambini appartenenti a famiglie di lingua diversa, con l’obiettivo di garantire a tutti la stessa conoscenza linguistica al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Il tempo pieno è stato incentivato, anche finanziariamente, in ogni ordine di scuole. Per garantire un’alta qualità dei docenti vengono selezionati per i corsi universitari i giovani appartenenti al terzo superiore dei diplomati. Infine è stato istituito presso la Humboldt Universität di Berlino l’Istituto per il Progresso Educativo incaricato e finanziato per la dotazione delle infrastrutture e delle capacità scientifiche necessarie a supportare lo sviluppo degli standard, fornire le analisi, monitorare e diffondere i risultati.

In Germania il 60% dei giovani impara un mestiere all’interno del “Duales Ausbildungssystem” (sistema duale scuola e lavoro) di istruzione e formazione professionale, che fa riferimento a circa 350 qualifiche riconosciute a livello statale, a un periodo tra i due e i tre anni di scuola e lavoro, a un esame di stato finale (mentre il sistema della pubblica istruzione è governato e gestito dai Länder, del sistema duale scuola/lavoro si occupa il Ministero Federale dell’Istruzione e della Ricerca - il quale stabilisce altresì i requisiti che devono essere posseduti dai formatori aziendali - con la collaborazione dei dipartimenti economici dei Länder e delle Camere di Commercio locali).

E’ un sistema che viene periodicamente messo in discussione e che vede diverse criticità ma che merita di essere fatto oggetto di attenzione: si tratta di un sistema dinamico, anche nell’inserimento frequente di nuovi “profili professionali” che si aggiungono al repertorio o ne sostituiscono altri; ha una certa permeabilità con il resto del sistema dell’istruzione e consente (seppure non senza difficoltà) il passaggio agli altri canali dell’istruzione, compreso quello universitario. Insomma, nonostante l’età, continua a funzionare, anche grazie ai cambiamenti intercorsi e soprattutto all’interesse delle imprese. A differenze di ciò che è accaduto in gran parte degli altri Paesi europei, ove l’istruzione generale e le competenze di base hanno avuto la meglio per un periodo più lungo in tutti i percorsi di istruzione, in Germania il sistema duale ha incorporato anche questa esigenza.

Il sistema duale gioca dunque un ruolo fondamentale in Germania dal punto di vista del rapporto tra la scuola e l’occupazione. In tutto il mondo industrializzato ai giovani che lasciano la scuola e cercano un’occupazione sono richieste nuove abilità, tra le quali quelle di saper stabilire obiettivi di lavoro, saper creare un piano per raggiungerli, saper lavorare in modo rigoroso per realizzarli, saper essere un buon componente o un buon conduttore di un team, saper lavorare anche in modo indipendente, saper trarre tanto dalle esperienze che dalla teoria le soluzioni a una larga varietà di problemi concreti e attuali, avere doti analitiche e creative. Il sistema duale tedesco appare un efficiente canale in grado di fornire queste capacità. In altri Paesi questo modello è stato abbandonato, senza, tuttavia, aver trovato una soddisfacente alternativa, anche perché la scuola da sola difficilmente costituisce l’ambiente giusto per lo sviluppo di quelle capacità.

Ne sono convinte le parti sociali (imprenditori e sindacati), il cui coinvolgimento nel sistema duale in Germania aiuta ad assicurare che esso risponda alle esigenze del mercato del lavoro, che insegni effettivamente le abilità necessarie e conduca a trovare un’occupazione soddisfacente per qualità e retribuzione. La capacità della Germania, in questi anni di crisi, di tenere un buon tasso di occupazione e alti salari e di essere vincente nella critica congiuntura mondiale viene fatta risalire, almeno in parte, alla presenza del sistema duale di istruzione, forte dell’attrattività che esercita sui giovani e della solida integrazione tra scuola formale e apprendistato.


*Relazione svolta nell'ambito delle giornate di studio: “Ricostruzione. LA SCUOLA PRIORITA’ PER L’ITALIA”, promosse dal PD di Bologna.

Bologna, 19 dicembre 2011

"Fare insieme", per la scuola bolognese.

Davide Ferrari*

Il PD è con le scuole di Bologna, e sostiene l'impegno e le esperienze dei dirigenti e degli insegnanti, la volontà di partecipazione degli studenti e delle famiglie.
Per questo stiamo promuovendo un vasto ciclo di convegni dal titolo: "Ricostruzione. La scuola priorità per l’Italia" che è inizia oggi con l'incontro "La scuola e la città. Progettare nella crisi delle risorse"
Bisogna “FARE INSIEME”, fra gli enti locali e le scuole, che sono centrali nella vità delle comunità , e fra l'intervento pubblico ed i soggetti del privato sociale, dell'associazionismo e le imprese che agiscono nel mondo educativo.
Condividiamo molto che il Comune di Bologna si appresti a promuovere un vasto percorso di partecipazione. Si vuole condividere con i cittadini scelte innovative di governo, per le scuole, i servizi, come il Nido, ed i centri educativi, verificando con quali strumenti dare autonomia ed un saldo coordinamento pedagogico alle strutture comunali, come a Reggio e in altri Comuni si è fatto dando vita ad una specifica Istituzione.
Lo Stato deve fare di più, sia finanziando almeno una parte di quello che Bologna ed altri Comuni fanno, al suo posto, nel campo della scuola dell'infanzia, sia garantendo alle scuole primarie e secondarie organici certi, funzionali alle necessità educative e dirigenti scolastici stabili che possano assicurare piani dell'offerta pluriennali e verificabili, e siano un riferimento essenziale, nei territori, per le scelte gli Enti locali. L'incertezza nella presenza delle direzioni, nel personale docente ed amministrativo, nelle disponibilità finanziarie è il primo problema che chiediamo al nuovo Governo di affrontare.
E' la base per poter programmare l'uso migliore delle risorse, razionalizzare e coordinare tutti i soggetti pubblici e sociali che sono al lavoro, nelle e con le scuole. Se non si può avere di più, oggi, si deve però averlo “meglio” . La scuola è nel terremoto, come ci hanno testimoniato i tanti interventi , ma non rinuncia alla qualità, vuole essere difesa con il cambiamento, chiede certezza di risorse, pur nei limiti stretti del momento, e più autonomia per impiegarle al meglio.



*Abstract della relazione di D.Ferrari al Convegno: “La scuola e la città. Progettare nella crisi delle risorse”, promosso dal Forum scuola del PD, a Bologna il 21-12-2011

venerdì 30 settembre 2011

Scuole di Modena: quali politiche? Parla Querzè.

Intervista ad Adriana Querzè, assessore all’istruzione del Comune di Modena
di B. Q. Borghi

La città di Modena ha un passato importante in ambito educativo e le sue scuole dell’infanzia rappresentano, ancora oggi, un patrimonio senza dubbio interessante. I tempi tuttavia sono cambiati e le amministrazioni comunali si trovano a dover affrontare nuove sfide: perché continuate ad investire in questo settore?

Cominciamo con uno sguardo al passato. Le scuole materne statali nascono con la legge n. 444/1968 e vengono istituite in rapporto alle risorse disponibili e solo laddove non ne esistano altre, gestite da privati o da enti locali, che rispondano alle richieste delle famiglie.
Quindi, anche dopo l'istituzione delle scuole statali, hanno continuato ad essere presenti scuole di origine parrocchiale, comunale e gestite da enti e privati, affiancate dalle ultime nate, le statali, non a caso diffuse a macchia di leopardo. La maggiore diffusione della scuole materne statali si è quindi avuta nelle zone del Paese storicamente meno dotate di servizi per l'infanzia. Il pluralismo gestionale precede quindi la legge che istituisce le scuole materne statali e non ne è assolutamente scalfito, anzi viene in un certo senso sanzionato dall'attuazione della legge stessa.
E' evidente che la configurazione del sistema scolastico per l'infanzia e l'impegno in certo modo “residuale”dello Stato dovesse prima o poi cozzare contro le esigenze determinate dalle mutate condizioni lavorative delle donne e dalla consapevolezza diffusa della necessità che la “prima scuola” fosse frequentata da tutti i bambini e le bambine.
Oggi, finalmente, la scuola dell'infanzia è entrata a pieno titolo nel sistema nazionale di istruzione ed il dibattito di berlingueriana memoria tra obbligo e facoltatività della frequenza si è risolto, un po' all'italiana, col concetto della generalizzazione della scuola. Ciò nonostante però, lo Stato è ben lontano dall'onorare l'impegno che si è assunto di generalizzare la scuola per i bambini dai tre ai sei anni. Quello della generalizzazione è infatti un vero e proprio livello essenziale che non impegna le famiglie alla frequenza ma lo Stato all'offerta. Invece, contrariamente a questo, vediamo permanere, e qualche caso addirittura aumentare le liste d'attesa per i bambini di questa fascia d'età.
Noi crediamo che il diritto allo studio cominci a tre anni e che sia assolutamente opportuno mantenere almeno il livello di frequenza raccomandato dalla U.E.
Quindi, in presenza di un governo centrale che non assume la questione della generalizzazione della frequenza come il vero obiettivo di sviluppo quantitativo del primo segmento dell'istruzione, noi interveniamo.
E' questa è la fondamentale ragione del nostro impegno: non vogliamo liste d'attesa di bambini di tre anni perché la scuola è un diritto ed è tale solo se, a scuola, c'è posto per tutti.
Un'altra ragione è legata al fatto che, almeno nei nostri territori, l'ente locale ha saputo non solo gestire ma soprattutto elaborare, all'interno dei servizi educativi, una cultura dell'infanzia che ha fornito spunti importanti per la definizione delle politiche nazionali che non vogliamo vadano dispersi.

In che senso hanno dato spunti importanti?

A Modena le scuole dell'infanzia comunali sono nate con un’idea non assistenziale: si è sempre ragionato ed operato pensando a bambini competenti, titolari del diritto di apprendere nella comunità dei pari, del diritto al gioco, alla comunicazione, all'espressione. Questa impostazione si è concretizzata in una pratica educativa capace di “trarre le conseguenze” dalle teorizzazioni più avanzate, attraverso le ingenti risorse investite sulla formazione e sulla valorizzazione del personale. Inoltre l'attenzione ai saperi infantili si è coniugata con l'idea di una scuola pubblica che appartiene alla città che l'ha voluta e che sa porsi in una situazione di scambio col territorio. Da esso trae la linfa di esperienze e conoscenze informali sulle quali elaborare saperi; ad esso restituisce una cultura di infanzia che lo rende più coeso, solidale e attento alle esigenze di tutti.
Dagli anni Settanta abbiamo cercato di miscelare questi aspetti: saperi e linguaggi dei bambini, formazione professionale dei docenti, rapporto di qualità col territorio, cultura dell'infanzia per una città più consapevole. Molti di questi spunti sono stati utilizzati negli stessi Orientamenti del 1991, straordinario documento programmatico e civile della scuola dell'infanzia nazionale. E molti di questi spunti, partiti da Modena sono arrivati a Roma grazie a docenti universitari e insegnanti modenesi che hanno fatto parte della commissione che ha elaborato il testo e, soprattutto, grazie al contributo di Sergio Neri. Con l'emanazione degli Orientamenti del 1991, Modena, che ha sempre lavorato per avere una “buona scuola”, ha sentito di avere avuto ragione.

Quali devono essere le caratteristiche di una buona scuola?

Due: una scuola è buona se i genitori possono entrarvi con diritto di parola, perché educare e istruire è un impegno collettivo e né la scuola né la famiglia possono sortirne da sole.
Una scuola è buona se sa essere per i bambini. Non per il funzionamento dell’organizzazione, non per l'economia, non per la selezione dei “non adatti” ma per far crescere insieme i diversi, accogliere e “promuovere” tutti garantendo a ciascuno “avvertibili traguardi di sviluppo” come ci ricordano gli Orientamenti del 1991.

In che cosa consiste perciò l’eredità pedagogica dei primi anni settanta?

Consiste in alcune idee ancora molto attuali e non pienamente realizzate.
L’idea di bambino che apprende in certe condizioni che impongono l’attenzione al contesto, alla molteplicità delle sollecitazioni, alla differenza e pari dignità delle risposte, alla socialità. Elementi, questi, che hanno portato alla elaborazione del concetto di ambiente di apprendimento che comprende la dimensione fisica, relazionale, cognitiva, oggi anche tecnologica dei luoghi nei quali l'apprendimento avviene.
E, ancora, l'idea di bambino competente che comporta, da parte degli insegnanti, la capacità di elaborare una didattica che tenga continuamente d'occhio le teorie che il bambino elabora sulla realtà senza considerarle errori da correggere ma ipotesi da verificare. Si tratta quindi di una didattica capace di tenere aperte varie piste di lavoro, muoversi nell'incertezza, riconosce che, da sempre, la verità di oggi è l' errore di domani e che, a volte, uno sguardo dal basso intercetta cose che dall'alto sfuggono. Il tutto senza sentimentalismi, ma con la consapevolezza scientifica, che oggi abbiamo, di come funziona l'apprendimento significativo nella prima età della vita.
Penso che si possa parlare di un doppio contributo: una iniziale attenzione al bambino e alla famiglia e un grande slancio in avanti dal punto di vista dell’aggancio alle teorie, quindi uno sforzo costante di tenere insieme teoria e pratica.

Quali sono stati gli strumenti?

La scelta del comune di Modena è, ed è stata, quella di investire sulla formazione. Mi riferisco alla formazione come crescita professionale e personale. Non a caso Sergio Neri parlava, lanciando un'idea molto fertile ancora oggi, di “professionista colto”.
Se però esaminiamo la situazione complessiva della scuola pare di essersi incamminati nella direzione opposta. Si pensi ai contratti degli insegnanti statali che non prevedono ore di formazione, ma anche alla dimensione culturale della professione docente. L'insegnamento che per molto tempo è stata una professione ambita e riconosciuta socialmente, oggi rappresenta spesso una seconda scelta e l'insegnante sempre più raramente è percepito come un intellettuale. Avviene con sempre più frequenza che gli stessi genitori abbiano a disposizione strumenti cultuali più solidi e, se questo di per sé non è un male, segnala comunque una difficoltà nella qualificazione del personale. Si tratta di un discorso molto complesso, legato alla società che cambia, a una diversa idea di scuola, alla occupabilità e alla attrattività delle professioni che muta nel tempo.

Tutto questo riguarda le origini ed è indubbio che Modena poggi su buone radici. Forse c’è anche un po’ il rischio della mitizzazione. Adesso si tratta di riuscire a tenere nel cambiamento. Come si muove il comune di Modena?

Ora occorre assumere la sfida del cambiamento: dii quello interno e di quello esterno. Se cambia l’esterno della scuola, se cambiano la società, i bambini, le famiglie, gli insegnanti stessi non possiamo prendere aprioristicamente per buono l’assetto interno. E senza rinunciare ai principi fondanti che, a nostro parere, restano anche gli obiettivi da perseguire perché mai raggiunti una volta per tutte, abbiamo deciso di lavorare a fondo sul coordinamento pedagogico, cominciando a pensarlo nei fatti e non nelle enunciazioni, come coordinamento “zerosei”.
Riteniamo infatti che in questa fase di trasformazione occorra, da un lato, tenere fermi i principi di fondo di quella che viene considerata una buona scuola e, dall'altro, che le scuole siano accompagnate nella rielaborazione progettuale di quanto sta mutando in termini di nuove aspettative, nuove domande, nuovo ruolo e rappresentazione dei genitori, cambiamento delle famiglie, nuovi saperi, richiesta di nuove flessibilità organizzative.
Pensiamo che la figura del coordinatore pedagogico possa avere per questi obiettivi un ruolo veramente propulsivo..
In specifico, stiamo lavorando sulla formazione congiunta dei coordinatori di nido e di scuola dell'infanzia e sulla riflessione sul loro ruolo.
Il ruolo e l’agire dei coordinatori di nido e dei coordinatori d’infanzia sono diversi per storie e tradizioni. Ora abbiamo iniziato un percorso rispetto al quale i coordinatori confrontano le pratiche, si formano per trovare un linguaggio comune. Questo è il lavoro di questo anno scolastico, vale a dire, una riflessione articolata, che parta dal fare, su competenze, attribuzioni, compiti, modi di essere all’interno dei collettivi. È un lavoro di analisi che coinvolgerà successivamente anche gli educatori e gli insegnanti.
Il primo obiettivo è assegnare ai coordinatori nidi e scuole dell’infanzia. Si tratta di un passaggio che non si può fare da un giorno all’altro.

Quali sono le maggiori difficoltà e potenzialità di questa operazione?

Le sue potenzialità consistono nella possibilità di rispondere meglio e più coerentemente alle domande sociali che arrivano alla scuola. Una è proprio quella della continuità. E' una domanda dei genitori che arriva in forma per così dire ... matura, che non chiede un appiattimento omogeneizzante incapace di tener conto della crescita, dei cambiamenti, della disomogeneità, ma che chiede che ogni segmento educativo metta al centro i bambini interi, con la loro storia e le specificità che portano.
Si tratta dunque di costruire un’idea di bambino, famiglia, accoglienza, relazione e saperi effettivamente unitaria ed aperta non al nuovo che verrà ma quello che è già entrato nei nidi e nelle scuole dell'infanzia .
Ad esempio, se un educatore di nido, assume il tema dell’accoglienza e dello star bene come esclusivo, fa sicuramente un'azione positiva per il bambino. Tuttavia nel passaggio da tre mesi a tre anni, dal punto di vista cognitivo, accadono molte cose fondamentali e non sarebbe accettabile che un educatore di nido, centrato sul benessere, non avesse, ad esempio, conoscenze sullo sviluppo del linguaggio, tema più tipico della scuola dell'infanzia, perché certi passaggi avvengono proprio al nido, non successivamente.
Si potrebbero fare altri esempi sul versante degli insegnanti delle scuole dell'infanzia.
Ciò che mi preme sottolineare però è che, attraverso il lavoro di formazione dei coordinatori, stiamo cercando di porre le condizioni per valorizzare il meglio della cultura dei nidi e della cultura delle scuole dell'infanzia, puntando ad un risultato che non potrà che essere un arricchimento per tutti.
Ovviamente, il processo è graduale, perché occorre preparare le persone per questo tipo di lavoro che punta proprio alla contaminazione culturale positiva e creativa fra due mondi ancora troppo lontani.
Il rischio maggiore che vedo nell'operazione è quello della perdita della specificità dei segmenti del sistema educativo ma credo che saranno gli stessi operatori ad indicarci quanto va modificato e quanto va preservato. Penso inoltre che questo ed altri rischi saranno minimizzati dalla formazione, strumento indispensabile e sempre presente che occorrerà raffinare ancora di più ed utilizzare come leva vera per vincere questa nuova sfida professionale e culturale.

Occorre insomma puntare sulla continuità …

Sì. La difficoltà dei differenti gradi educativi (nido, infanzia, primaria) di comunicare e di fare continuità dipende da diversi elementi. Credo che uno dei più importanti sia la difficoltà per ciascun grado di riconoscere ed apprezzare i saperi specifici dell’altro. Il nostro sforzo si muove perciò nella direzione della costruzione della reciprocità, anche come riconoscimento dei saperi di ognuno che debbono entrare maggiormente in circolazione. E comunque molto è riconducibile alla formazione dei coordinatori pedagogici, del personale docente ed educativo.
In che cosa consiste il progetto di formazione di cui parlava prima?

Abbiamo cercato di coordinare la formazione degli educatori di nido e dei docenti di scuola dell'infanzia partendo da un’idea e da un dato.
L’idea , banale ma non certo scontata, è che la formazione in servizio si rivolge ad adulti già professionalizzati quindi non può né partire da zero, né ignorare le competenze pregresse o le preferenze e le caratteristiche individuali.
Il dato è che stiamo assistendo ad un forte turnover di educatori e insegnanti: un vero e proprio cambio generazionale. Questo ci ha posto nella condizione di dover immaginare una formazione utile per docenti con esperienza pluridecennale e docenti neo assunti.
Continuando a ritenere utile l’idea di professionista colto, pensiamo ad una formazione che travalichi il mondo prettamente scolastico e l’approccio esclusivamente pedagogico cercando di fornire stimoli per far sì che l’insegnante possa davvero sentirsi parte del mondo della cultura oltre che di quello della professione.
Le insegnanti che entrano nelle scuole dell'infanzia dopo il percorso universitario a volte sono molto disorientate dalla distanza tra la formazione teorica e la realtà. Crediamo di dover insistere quindi sui campi di esperienza intesi come dimensioni dello sviluppo, sistemi simbolico-culturali, lineamenti di metodo, esiti e percorsi. Questi infatti è uno dei tratti distintivi della scuola dell’infanzia in generale.
Il piano di formazione cerca di rispondere coerentemente ai requisiti descritti e si articola su diversi contenuti per la costruzione di diverse competenze.
Vengono attivati corsi condotti da esperti con metodologie tradizionali finalizzati alla riflessione su temi generali relativi al contesto ambientale e socio-culturale; corsi operativi per l'approccio alla didattica del fare, con metodologie laboratoriali nei quali gli insegnanti sperimentano direttamente tecniche da utilizzare in sezione; corsi teorico-pratici, condotti da insegnanti di grande esperienza, che affrontano aspetti di contenuto e organizzazione didattica che consentono di valorizzare le competenze del personale in servizio in un vero e proprio trasferimento di competenze che nella scuola solitamente non avviene.

Ormai gli enti locali che gestiscono scuole dell’infanzia sono sempre meno: perché il comune di Modena continua a sobbarcarsi questo onere?

La risposta è semplice: perché al centro delle politiche del comune ci sono i diritti delle persone e quello all'istruzione è un diritto inalienabile. Piuttosto occorre chiedersi come il comune può sostenere questo onere a fronte di riduzioni consistenti dei trasferimenti e di una sempre più accentuata complessità gestionale ed organizzativa.
Alla questione dei costi facciamo fronte con le scelte di bilancio (le risorse non sono carenti in assoluto ma anche in relazione alle scelte che si fanno), con scelte di politica tariffaria e di contrasto alla morosità, con la ricerca di un equilibrio tra le diverse forme di gestione delle scuole che hanno ovviamente diverse ricadute sulle casse comunali.
A quest'ultimo problema risponde il sistema misto-integrato.
Misto significa a gestione mista, composto cioè da scuole comunali 35%), convenzionate (12%), convenzionate FISM (35%) e statali (18%).
Integrato significa che abbiamo nel tempo costruito strumenti in grado di rendere omogenea rispetto ad alcuni criteri, l'offerta per i bambini modenesi.
Alcune azioni sono interessanti esempi di integrazione e governo del sistema.
La prima: esiste un centro unico di iscrizione per tutte le scuole dell'infanzia cittadine, gestito dal comune, che non solo raccoglie materialmente le iscrizioni ma definisce annualmente gli stessi criteri di accesso coinvolgendo i dirigenti scolastici che li deliberano nei rispettivi Consigli di Circolo, le circoscrizioni, le direzioni delle scuole convenzionate. Questo determina pari condizioni di accesso, evita le doppie iscrizioni, consente al comune di offrire posti non scelti ad eventuali bambini in lista d'attesa per scuole troppo richieste. Inoltre, proprio per mantenere il sistema in equilibrio, da alcuni anni i genitori possono scegliere un massimo di sei scuole due delle quali statali, due comunali e due convenzionate: accorgimento che si è rivelato strumento utile per ridurre il fenomeno dell'affollamento di stranieri nelle scuole statali.
La seconda: il comune, oltre ad investire sulla formazione per i propri docenti, si occupa anche di sostenere quella dei docenti delle scuole convenzionate: negli appalti, ad esempio, inseriamo una premialità relativa al monte ore di formazione garantito ai docenti; inoltre la formazione rivolta agli insegnanti comunali è aperta anche a quelli delle scuole convenzionate.
La terza: abbiamo istituito un ufficio qualità che lavora soprattutto con le scuole convenzionate, sulla base di due idee condivise: l’autonomia delle scuole paritarie non è in discussione; il comune ha il diritto / dovere di controllare quella parte di finanziamento che mette a disposizione delle scuole convenzionate perché si tratta di denaro pubblico. Sulla base di queste idee, ad esempio, è stato possibile introdurre l'effettuazione di controlli degli standard di funzionamento e di alcuni indicatori quali l’autenticità del progetto pedagogico.

Che cosa intende per autenticità?

Quanto viene scritto nel progetto pedagogico deve trovare un riscontro nel fare. Se nel progetto pedagogico c’è scritto che l’ambiente è l’elemento che sostiene il progetto, non possono esserci cartelloni confezionati esclusivamente dall’insegnante, mancanza di prodotti dei bambini, assenza di qualsiasi forma di documentazione.

Questo che cosa ha determinato?

Una apertura di dialogo dove , con molto rispetto e con tutta la calma che ci vuole in questi casi, si sono avviati alcuni percorsi virtuosi.
La costruzione di un rapporto via via sempre più costruttivo: i nostri controlli non sono certo finalizzati a sanzionare inadempienze, ma ad accompagnare la crescita pedagogica di tutto il sistema e a ricevere sollecitazioni dalle migliori esperienze. Ad esempio alcune grandi cooperative che gestiscono scuole convenzionate hanno maturato esperienze sulla qualità molto diverse da quelle attuate dal comune ma assolutamente interessanti: in un sistema che funziona tutti possono e debbono imparare da tutti.

Quindi, se dovesse sintetizzare le politiche del comune di Modena rispetto alle scuole dell'infanzia, cosa potrebbe indicare?

Innanzi tutto la scelta di non ridurre l'offerta di servizio in relazione alle diminuite risorse economiche.
In secondo luogo l'attenzione a tenere viva ed aggiornata la cultura dell'infanzia presente nei servizi come lascito del passato ma anche come dimensione costantemente rinnovata e rapportata alla contemporaneità.
Inoltre la manutenzione del sistema misto-integrato attraverso azioni concertate che ne ottimizzino i vantaggi in termini di accesso, qualità erogata, finalità condivise.
Infine la cura del personale docente che è la risorsa primaria della scuola, cura intesa come valorizzazione del personale stesso e formazione in servizio.