domenica 30 settembre 2012

Bologna. Oltre l'emergenza, una prospettiva


I servizi educativi e scolastici per l'infanzia.

Gabriele Ventura



PREMESSA
La situazione di emergenza determinatasi per il sistema dei servizi educativi e scolastici gestiti dai Comuni a partire dalla fine del 2011 in conseguenza del combinato disposto dalle varie norme emanate da allora in poi inerenti il Patto di stabilità e la gestione del personale non è ancora terminata.
L’amministrazione comunale di Bologna ha individuato e avviato per l’a.s. 2012-13 una prima revisione dell’assetto organizzativo che consente una gestione efficace dei problemi più gravi e più urgenti sia in ordine alla continuità del servizio che in ordine alla occupabilità del personale precedentemente incaricato a tempo determinato, rispettando sostanzialmente i vincoli su riferiti.
La soluzione adottata prevede la responsabilizzazione di Asp Irides nella gestione di alcune parti del servizio sia nelle scuole d’infanzia che nei nidi, in relazione ai punti più deboli del precedente assetto organizzativo per quanto riguarda la gestione del personale (nel nido: orari prolungati e integrazione bambini con handicap, sia nel nido che nella materna: gestione del servizio ausiliario in una quota parte dei servizi: 13 nidi e 20 scuole infanzia) prevedendo nel contempo la possibilità di prolungare per un altro a.s. l’attribuzione di incarichi a tempo determinato per il personale insegnante delle scuole d’infanzia.
Resta da elaborare invece una soluzione organica e di prospettiva all’interno di uno scenario nel quale sono cambiati alcuni aspetti significativi ma non i dati strutturali di fondo del problema. In questo quadro occorre individuare prioritariamente una soluzione utile già per il settembre 2013 per la gestione dell’insieme dei posti occupati da insegnanti incaricati a tempo determinato nelle scuole d’infanzia.
Rimane del tutto aperta la sfida complessiva che avevamo sintetizzato a marzo 2012 in questi termini: “..Occorre ridefinire il senso della situazione … nei termini di capacità di affrontare e gestire una vera e propria transizione di sistema (che risulta necessitata alla sua origine, ma non nei suoi esiti..) con l’obiettivo di avviare una trasformazione guidata verso nuovi assetti organizzativi dei servizi educativi e scolastici a gestione diretta, finalizzata a mettere in sicurezza sia i diritti dei bambini che quelli degli adulti (lavoratori e famiglie) con uno sforzo collettivo e convergente di responsabilità creativa e realistica”.
Tornare ad affrontare il problema oggi, dopo un primo anno di elaborazioni e di riflessioni, dovrebbe consentire però anche il lusso di poter riordinare le idee attorno a dei nuclei di contenuto che, per quanto siano intrecciati fra di loro in modo indissolubile sul piano pratico e quindi rimandino a soluzioni omeopaticamente e specularmente complesse, debbono essere mantenuti distinti in un primo momento sul piano dell’analisi per una messa a fuoco più precisa per poter arrivare a elaborare una sintesi efficace sul piano della progettazione e della sperimentazione coerente delle ipotesi di soluzione.
Non è indifferente nemmeno sul piano dell’analisi l’ordine di ingresso dei temi o per meglio dire la chiave di approccio, il passo iniziale di un percorso logico finalizzato a questo scopo perché proprio come avviene nel gioco degli scacchi la prima mossa spesso determina il tipo di partita che poi si giocherà.
Da questo unto di vista occorre segnalare che la revisione della gestione e del funzionamento dei servizi educativi e scolastici nel tempo di una crisi economica che accompagna e qualifica un processo di trasformazione antropologica e culturale strutturale dovrebbe individuare anche l’obiettivo di recuperarne una funzionalità generale attraverso l’analisi di problemi specifici che si pongono su di un versante psico sociologico e di un approccio di pedagogia sociale dotato degli strumenti concettuali, metodologici e tecnici adeguati quanto meno a giocare la partita alla pari piuttosto che limitarsi a subirla sulla difensiva e in ritardo.
La Questione pedagogica: gli orientamenti.
emergenze sociali e culturali e ricostruzione di un percorso.
I caratteri della crisi in campo educativo e culturale
Le trasformazioni socio economiche registratesi negli ultimi venti anni a livello internazionale hanno determinato a cascata una quantità enorme di conseguenze sul piano sociale e culturale.
Il profilo antropologico diffuso che ne consegue nell’area del mondo in cui viviamo (occidentale, europea e latina) con particolare riferimento alla costruzione della identità personale e di gruppo (declinate secondo le differenze costitutive di genere e di condizione esistenziale specifica nel corso delle diverse età della vita, nonché le pratiche di relazione interpersonale e sociale sono stati descritti e analizzati efficacemente da alcuni grandi pensatori (Bauman, Morin, Sennett). Il quadro che ne risulta può essere letto come una trasformazione epocale dagli esiti non prevedibili e dai contorni problematici sotto vari profili.
Le contraddizioni e i dilemmi che si esprimono a livelli radicali nella vita delle singole persone e dei gruppi sociali fino al cuore di fenomeni che si collocano nella sfera della produzione e della riproduzione della vita (in senso biologico, psicologico, culturale e sociale) non potevano non avere ripercussioni strutturali nel campo dell’educazione.
Ad oggi infatti occorre registrare un situazione generale di particolare complessità e difficoltà (si è enunciato da più parti il concetto di “emergenza educativa” in parallelo a quello di “crisi economica globale”) determinata sostanzialmente dal fatto che sono entrati in crisi sia i paradigmi autoritari e patriarcali di una società prevalentemente contadina e manifatturiera (statica nella sua struttura di fondo nonostante i progressi dell’economia, della tecnica e della scienza) sia quelli di natura libertaria e poi liberista emersi a partire dagli anni settanta e ottanta in coincidenza con una fase di sviluppo economico post industriale caratterizzato da una mobilità di fatto incontrollabile (non solo in senso geografico) di persone, merci e informazioni, nonché dalla diffusione di strumenti di comunicazione e di interconnessione planetaria.
Merita segnalare che questi paradigmi sono entrati in crisi in conseguenza del fatto che sono caduti i presupposti sociali che li fondavano e sostenevano e quindi risulterebbe abbastanza velleitario qualunque tentativo di elaborazione di contromisure meramente e astrattamente pedagogiche, così come lo possono essere i discorsi su principi e perfino sui diritti disancorati da un’analisi e da risposte sul piano dei bisogni primari.
In questa crisi stanno e con questa crisi debbono fare i conti innanzitutto le diverse figure antropologiche interessate dai processi educativi: in primis bambini, genitori, educatori e insegnanti. Ma le stesse istituzioni educative non possono essere considerate come fattori neutri sia sul piano del senso complessivo e oggettivo che esprime la struttura e l’organizzazione, sia sul piano soggettivo dei vissuti di agio o di disagio che nella quotidianità caratterizzano l’esperienza dei singoli attori che si muovono al loro interno in ordine alla gestione dei ruoli, delle responsabilità e delle competenze, delle relazioni e degli apprendimenti.
Linee di ricerca per una il rilancio di una cultura dell’educazione
La lezione della pedagogia istituzionale resta sotto questo profilo di grande attualità e utilità, una volta che si riesca a declinarne efficacemente gli strumenti classici di analisi e di progettazione rispetto agli attuali scenari e contesti macro e micro sistemici (cfr. U.Brofenbrenner) che potremmo definire caratterizzati da elementi di “complessità liquida” (condensando in una formula il contributo ben più ricco del pensiero di Bauman e di Morin). Dentro questo cornice di riferimento di carattere generale il ricorso sul piano macrosistemico al pensiero di J. Bruner in ordine alla cultura dell’educazione e a quello di D.H.Winnicott in ordine a una cultura della relazione, ci sembra che potrebbe completare il quadro di un affascinante percorso di ricerca-azione che si configura di fatto come un vero e proprio “esodo culturale” alla ricerca di una nuova “terra” e un nuovo “inizio”.
In questo percorso la pedagogia delle prima infanzia italiana ed europea del novecento non manca certo di autorevoli e fondamentali punti di riferimento; si può anzi dire che la pedagogia italiana del novecento rappresenti la pedagogia delle prima infanzia tout court anche a livello internazionale (per tramite soprattutto di due figure come Maria Montessori prima (a partire dal primo decennio del novecento) e Loris Malaguzzi (a partire dagli anni settanta) i cui modelli hanno costituito un vero e proprio prodotto di esportazione).
Occorre però nel contempo segnalare che, per quanto meno rinomati su scala internazionale sono risultati più diffusi su scala nazionale i contributi e le esperienze di Rosa Agazzi ( a partire dall’ ultimo decennio dell’ottocento) e di Bruno Ciari (anni cinquanta e sessanta del novecento) con un comune connotato di natura intenzionalmente nazionalpopolare.
Non sembri superfluo o retorico questo richiamo storico perché se è vero che restano ignoti gli approdi di quel che abbiamo definito un esodo culturale è altra tento vero che è bene non dimenticare i punti di partenza perché rappresentano una dote ineliminabile (nel bene e nel male), tale per cui non risulta né utile né possibile non farci conti per quanto sia giusto e doveroso farlo criticamente e con lo sguardo rivolto al presente e al futuro piuttosto che alla nostalgia per una epoca d’oro pedagogica (che probabilmente non è mai esistita per davvero come oggi ce la rappresentiamo).
Democrazia ed educazione
Di una cosa ci sentiamo abbastanza sicuri: ritorna prepotentemente di attualità il nesso concettuale (già individuato da J.Dewey poco meno di cento anni fa: 1916) fra “Democrazia ed educazione”, ma con un significato più ampio in ordine ai contenuti e alla geografia (occorre oggi infatti collocare quel nesso nell’ambito del processo di globalizzazione economica e di interconnessione/contaminazione culturale in atto) e più profondo (la sfida infatti si colloca oggi sia per la democrazia che per la pedagogia al livello di una necessaria rigenerazione di senso delle pratiche e di rifondazione strutturale delle istituzioni, della organizzazione e delle procedure).
Da questo punto di vista e in questo contesto, appare francamente patetica (absit iniuria verbis) la riproposizione di discorsi intorno alla scuola e alla educazione di stampo normativo e statalista oppure al contrario di stampo libertario e liberista, perché risultano entrambi con ogni evidenza privi di qualunque possibilità di aggancio con la realtà (non parliamo nemmeno di direzione dei fenomeni..), impotenti sul piano di una qualificazione in senso davvero democratico del governo del sistema e del suo sviluppo, contrassegnati da inevitabili contraddizioni concettuali, nonché spesso e volentieri da interessi di parte, a volte in modo tanto smaccatamente corporativo, quanto velleitario.
Da un certo punto di vista queste posizioni risultano paradossalmente rinunciatarie perché evitano con cura il dilemma fondamentale che caratterizza la democrazia nella sua forma attuale: quella di essere applicabile solo al netto di tutte le differenze sostanziali che pure costituiscono il nucleo fondante delle identità delle persone, dei gruppi sociali e dei popoli. Da quelle occorrerebbe ripartire per una iniziativa convergente e parallela di costruzione di un patto di non belligeranza (nel senso di un movimento reciproco di evitamento del danno come scopo primario) e poi di costituzionalizzazione (nel senso della elaborazione culturale del riconoscimento della necessità dell’altro ancora prima che in senso istituzionale), perché non esiste democrazia reale senza la assunzione volontaria di un limite sociale alla propria libertà di iniziativa. Da qui il carattere non neutro ma piuttosto intersoggettivo e liberamente condiviso del carattere democratico di qualsivoglia istituzione (anche di quelle educative).
L’ accoglienza ecologica (cioè ordinata e regolata) nello spazio pubblico delle differenze, come impegno (richiesto a tutti e corrisposto da ciascuno) di ricerca di un dialogo e di un confronto permanenti costituiscono la scelta originariamente fondante un patto di convivenza cooperativa, attraverso l’interpretazione responsabile e virtuosa di un processo dialettico di differenziazione e integrazione. (cfr. Costituzione Italiana art. 2 e art. 3 comma 1)
Da questo punto di vista un programma/obiettivo universalistico in tema di diritti e scrittura delle regole è finalizzato al conseguimento di traguardi progressivi sul piano della equità (intesa come pari opportunità) e della libertà sostanziale (intesa come rimozione degli ostacoli alla autodeterminazione consapevole e responsabile (cfr. Costituzione Italiana . art. 3, comma 2 ). L’unità a cui mira questa azione non può che essere che una “unità plurale”.
Ecologia dello sviluppo umano
Se l’educazione reale si determina come esito di una relazione strutturalmente e costitutivamente dialettica (fra genealogia e ambiente, singolarità’ individuale e sistema sociale, maschile e femminile, ecc.), allora ai fini di una riforma morale e intellettuale di cui si sente il bisogno in modo acuto in una fase di inizio millennio che si può definire senza enfasi di transizione epocale di civiltà, allora occorre la consapevolezza della necessità di un doppio movimento in campo pedagogico.
Da un lato si pone la necessità di una nuova alleanza educativa fra i molti attori chiamati in causa a vari livelli di complessità del sistema relazionale e sociale (da micro al macro e viceversa) a partire dalla consapevolezza del valore e della parzialità al tempo stesso del proprio essere individuale: l’educazione o è cooperativa e non è . Da questo punto di vista potremmo dire provocatoriamente che l’educazione reale non è materia di esclusiva competenza di qualcuno professionalmente deputato a questo scopo (stesso discorso per altro si può tranquillamente fare per la salute..).
Bisogna però intendersi bene: perché non è parimenti ammissibile una deriva degradante sul piano culturale che azzera qualunque riflessione seria e rigorosa a favore di un senso comune che per altro risulta sempre più condizionato da fattori estranei di tipo sub culturale o massmediologico o consumistico. L’analfabetismo di ritorno insomma si esplica ben oltre il versante funzionale (anche in campo educativo) in modo tale per cui la comprensione della frase costituzionale relativa la fatto che “la sovranità spetta al popolo” deve necessariamente includere anche il seguito dove si specifica come segue “..che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” . Qualcosa di simile vale anche per il diritto dovere all’esercizio della responsabilità educativa primaria in capo a genitori e famiglie, rispetto a diritti fondamentali della persona che per altro sono almeno in parte già definiti per quanto riguarda i casi limite nel codice Civile e penale. Questo fatto per altro non si capisce perché mai dovrebbe suscitare sospetti e diffidenze (al netto di incidenti ed eccezioni..) invece che rappresentare una garanzia di terzietà legalitaria (che notoriamente serve solo in casi di necessità) e quindi risultare rassicurante per tutti. Alla luce di una matura assunzione di responsabilità personale e sociale e di una corretta elaborazione deontologica e professionale le differenze (di ruolo, di soggettività personale, di genere, di cultura, di età, ecc.) non possono che essere una risorsa, piuttosto che un problema.
Per una pedagogia sufficientemente buona
E’ comprensibile che nel mezzo di una temperie di trasformazioni, economiche, sociali e culturali della portata che abbiamo potuto appena accennare si registrino fenomeni diffusi di disorientamento che affiggono educatori naturali e professionali (fuori di metafora: genitori e insegnanti).
Al di là degli episodi eclatanti e anche drammatici riportati di volta in volta (ma con una crescente frequenza) dalla cronaca, da quello straordinario osservatorio antropologico che è rappresentato dalla gestione quotidiana dei servizi educativi e scolastici per l’infanzia è possibile rilevare segnali di malessere e di difficoltà a carico di adulti e bambini, tale per cui la dimensione della prevenzione primaria deve essere individuata come una delle mission fondamentali di quei servizi sul piano culturale e sociale.
A carico dei genitori si rilevano:
- fenomeni di insicurezza che rimandano a una condizione di solitudine/isolamento, rottura delle reti genealogiche e intergenerazionali tradizionali e debolezza di quelle amicali e/o associative,
- comportamenti e aspettative contraddittori, altamente diversificati, a volte decisamente inadeguati sul piano delle modalità di cura (come forma di pre-occupazione sana e responsabile)
- enfatizzazione impropria ed esagerata delle aspettative in ordine ai percorsi di apprendimento e di socializzazione dei bambini.
A carico degli insegnanti (ma in modi diversi anche delle figure ausiliarie) si rilevano:
- una stanchezza specifica relativa a una certa fascia generazionale determinata dall’anzianità di servizio che si proietta ulteriormente nel tempo per effetto dei provvedimenti relativi al prolungamento dell’età pensionabile con effetti che non paiono ancora nemmeno tematizzati né da parte delle istituzioni, né da parte sindacale;
- un crescente affaticamento generale (indipendente dalla anzianità di servizio) a fronte dell’aumento della complessità della esperienza quotidiana di lavoro rispetto alle difficoltà emergenti nel rapporto con i problemi che i bambini portano con sé a scuola, ma ancora di più con i problemi e le aspettative che i genitori e le famiglie portano a scuola;
- una difficoltà a uscire da una concezione idealizzante e tardo deamicisiana della professione educativa e docente che determina sentimenti contraddittori di vergogna (rispetto a una consapevolezza non dichiarata e quasi inconscia di inadeguatezza sostanziale) e di contestuale ricerca di protagonismo nonché aspettative di riconoscimento e gratificazioni sul piano lavorativo sia a livello individuale che a livello sociale (come categoria e come sottogruppo dotato di minore forza contrattuale nell’ambito della più ampia categoria del personale insegnante). En passant occorre segnalare a questo riguardo che il personale ausiliario soffre perfino della mancanza di una qualifica professionale specifica.
A carico dei bambini si rilevano:
- difficoltà e ritardi nello sviluppo sul piano delle abilità linguistico-comunicative
- fenomeni di disagio sul piano relazionale (vissuti di autoreferenzialità che vanno oltre la fisiologica caratterizzazione relativa al grado di maturazione e di sviluppo e che sembra attendibile ricondurre almeno in parte anche ad una carenza di esperienza di convivenza, confronto e scambio con coetanei in ambito familiare ed extrascolastico.
- crescenti competenze sul piano della gestione dei codici visivi ( figure e simbologie) nonché di tecnologie comunicative da un lato e minore padronanza delle competenze motorie (sul piano delle autonomie personali ma anche delle capacità di orientamento in uno spazio non virtuale, ma fisico e tridimensionale).

Educatori e genitori: la condivisione implicita di una condizione da “comici e spaventati guerrieri” (S.Benni)
La presa di coscienza di queste problematiche può anche scoraggiare e indurre alla rassegnazione oppure può produrre indignazione e ribellione e poi indurre a velleitarie imprese di tipo prometeico.
Le une e le altre sono già state ampiamente sperimentate nel corso della storia universale e non pochi hanno potuto farne esperienza anche nel corso della propria storia personale.
Ci pare quindi possibile un affermazione apparentemente paradossale: intenzionalità educativa e ironia sono tratti soggettivi che debbono essere coltivati e coniugati quotidianamente, a livello personale e debbono trovare anche delle espressioni tecniche e procedurali in ambito istituzionale perché costituiscono un binomio fecondo e virtuoso, un indicatore di benessere e di salute, prima ancora che di efficacia.
Uno sguardo educativo sapiente (declinato in termini di allegria e bonarietà amorevole/materna o al contrario di severità paterna/responsabile: cfr. Filippo Neri – 1575, Lorenzo Milani – 1967) può essere conseguenza di una fisiologica differenza di attitudini soggettive e di personalità o invece la messa in atto di una consapevole scelta contingente basata sulla interpretazione delle circostanze, ma non è mai uno sguardo ingenuo o superficiale; in un caso e nell’altro un tratto visibile di ironia e di autoironia rappresenta l’indizio sicuro di una consapevolezza profonda della realtà e del limite di qualunque intenzionalità e iniziativa che voglia rimanere ancorata saggiamente alla terra e alla caratteristiche ontologiche della condizione umana e della sua storia.
In ambito culturale e politico tutto questo può essere espresso con formule di maggiore impatto comunicativo arrivando qualificare la “pedagogia come scienza a sovranità limitata”, cioè come sapere circa il senso, i contenuti e i modi delle attività di cura e di sostegno dello sviluppo umano, nonché come pratica democratica di promozione esistenziale sul piano della relazione interpersonale e di emancipazione sociale sul piano della relazione comunitaria.
In campo filosofico (pensare non risolve, ma aiuta) occorre riconoscere che l’antico dilemma/paradosso inerente il concetto di libertà’ e autorità’ in educazione ha registrato (in anni recenti ma neanche pochissimi ormai) dei contributi importanti e anche decisivi da un certo pensiero femminile (cfr. Luisa Muraro, L. Irigaray) se non fossero ancora ampiamente sottovalutati, se non del tutto ignorati (tanto nella teoria accademica come nella pratica educativa reale).
Che fare? Una risata forse ci libererà (libero adattamento da V.Majakovskij)
Occorre innanzitutto creare due condizioni preliminari di consapevolezza sul piano del metodo e della prospettiva:
  1. In primo luogo occorre sapere che non si tratta di una “malattia” leggera, a decorso breve; forse si può ottimisticamente considerare che si tratti di una di quelle malattie che in ambito pediatrico caratterizzano fisiologicamente la crescita, ma non ci sono vaccini efficaci che consentano di evitarla.
  2. in secondo luogo serve un esercizio onesto e permanente di confronto e di autocoscienza/autocontrollo perché le tentazioni istintive di rimozione e di fuga assumono anche tratti imprevisti (ad es. forme di collusione confusiva fra educatori in cerca di gratificazioni e genitori in cerca di rassicurazioni) che producono vere e proprie distorsioni della percezione dei problemi, delle persone e delle aspettative, dei ruoli, delle pratiche e delle relazioni. Nota bene: di solito con l’aggravante di un tratto aggiuntivo di natura individualistica e consumistica che, se è socialmente indotto, non per questo risulta meno dannoso e giustificabile. Occorre in ogni caso segnalare che si tratta di tentativi di soluzione puramente difensivi, inefficaci e alla fine anche controproducenti dei problemi, dei conflitti del senso di insicurezza diffuso.
Costruita, anche senza una precisione satellitare, la mappa del territorio educativo con le sue asperità e le sue paludi, completato l’equipaggiamento necessario per il viaggio e acquisite le informazioni di viaggiatori che abbiano già fatto tentativi esplorativi, nonché le eventuali raccomandazioni di esperti vari e diversi che possano risultare utili allo scopo si può tentare qualche passo in una direzione o in un’altra.
Il discorso qui si potrebbe allungare di molto ma in questa sede preferiamo limitarci a indicare i titoli di quelli che ci sembrano due piste di ricerca essenziali, quasi quanto indicazioni segnaletiche significative, anche perché di contenuto coerente con quanto si può raccogliere da altre fonti informative e perfino in ambiti diversi da quello specifico dell’educazione.
Uno sforzo utile e foriero di risultati vantaggiosi sembra riferibile ad una iniziativa di ricerca binaria, finalizzata da un lato a rinnovare il significato di un motto antico e dall’altro ad adattare il senso di una parola d’ordine molto più moderna che qui utilizziamo come metafora:

unicuique suum = a ciascuno il suo (n.b. in questo caso “il suo” sta per “mestiere”).
educatori di tutto il mondo (e di tutte le bandiere..) unitevi (n.b. in questo caso l’appello è finalizzato contrariamente a quello originario a scopi più miti, comunque non violenti, di rigenerazione del senso della parola educazione, attraverso la costruzione di un ragionevole e ragionato campo di autonomia epistemologica e pratica (anche attraverso un adeguato ripensamento delle categorie e degli strumenti di lavoro sul piano sociale, culturale, deontologico e tecnico) rispetto ad altre fonti di pensiero e di potere (quand’anche rappresentassero una legittima committenza) e anche rispetto ai condizionamenti determinati dalle eredità e dalle qualità originarie della storia individuale di ciascuno.


"Riforma della scuola" n° 15

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giovedì 31 maggio 2012

L'innovazione istituzionale al tempo della crisi: la fondazione per le scuole dell’infanzia di Modena


Stefano Neri*

 
Il problema

I vincoli imposti dal patto di stabilità interna e dalle misure di austerità prese a livello nazionale per fronteggiare la crisi finanziaria stanno determinando difficoltà molto rilevanti per gli enti locali a garantire i servizi ai cittadini. A questo proposito solitamente si è portati a sottolineare i problemi di carattere economico derivanti dalla riduzione dei trasferimenti, una questione indubbiamente rilevante; altrettanto gravi sono tuttavia i vincoli normativi posti all’assunzione del personale, che rischiano di condizionare pesantemente le scelte gestionali delle amministrazioni locali, soprattutto dei Comuni.

Deliberatamente o meno, il quadro normativo sembra spingere i Comuni alla dismissione dei servizi in gestione diretta a favore dell’affidamento a soggetti terzi. Le norme principali che concorrono a favorire tale esito sono:

l’art. 14, co. 9 della legge 122/2010 che converte con modifiche il decreto legge 78/2010. Tale norma stabilisce che si “possa procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente”. Ciò significa che ogni cinque dipendenti cessati dal servizio solo uno può essere assunto di ruolo;

l’art. 36, co. 2 del decreto legislativo 165/2001, come modificato dall'art. 17, co. 26, della legge 102/2009, che stabilisce che le pubbliche amministrazioni possano “avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale” e quindi anche dei contratti a tempo determinato, solo “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali”. Recentemente la disposizione è stata emendata rafforzando la responsabilità dirigenziale e le sanzioni previste in caso di violazione della norma sull’impiego di contratti “atipici” o non standard;

l’art. 4, co. 102, lett. b) della legge 183/2011, approvata in agosto, ha esteso agli enti locali le disposizioni contenute nel decreto legge 78/2010 (come si è detto, convertito con modifiche dalla legge 122/2010). Tali disposizioni avevano posto sulle amministrazioni statali un vincolo nella possibilità di “avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009”. Lo stesso limite vale per “la spesa per personale relativa a contratti di formazione lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro, nonché al lavoro accessorio”. La disposizione è stata prorogata fino a tutto il 2013.



Questo insieme di norme introduce forti vincoli alla possibilità degli enti locali di sostituire personale dipendente che cessa dal servizio, ponendo limiti molto stretti sia alle assunzioni a tempo indeterminato che alle assunzioni o ai rinnovi a tempo determinato o con altre forme contrattuali di tipo non standard. Ciò rende sempre più difficoltosa la gestione diretta dei servizi, in particolare nel caso dei servizi labour intensive, ossia che richiedono l’impiego di un numero elevato di operatori, come i servizi alla persona (asili nido, scuole dell’infanzia, servizi sociali).

In questi mesi il problema è emerso soprattutto in relazione ai servizi per l’infanzia 0-6 anni nei quali molti Comuni fanno ricorso, in misura significativa, a educatrici, personale docente ed assistenti con incarichi annuali a tempo determinato, per colmare carenze d’organico causate da pensionamenti o trasferimenti di personale solo parzialmente sostituito con nuove assunzioni a tempo indeterminato. Per l’anno scolastico 2012-13 gli incarichi a tempo determinato potranno essere solo in parte rinnovati e questo pone in forte difficoltà i Comuni in cui l’offerta di servizi per l’infanzia comunali è più estesa. L’avvenuta esclusione delle scuole e dei servizi educativi degli enti locali a rispettare il limite del 50% delle spese sostenute nel 2009 per la stipula di contratti a tempo determinato, per l’anno 2012, non farà che riproporre il problema nel gennaio 2013, rischiando di mettere i Comuni nella condizione di non poter garantire anche la sostituzione del personale assente per brevi periodi dal lavoro. Anche la possibilità di ricorrere alla mobilità interna non risolve la carenza di educatori e insegnanti, in quanto negli organici comunali sono praticamente assenti le figure professionali qualificate provenienti da altri servizi e inseribili in asili nido e scuole dell’infanzia.

La questione è stata sollevata da numerosi Comuni italiani, tra cui quelli di Bologna, Milano, Napoli e Torino. Si tratta di realtà nelle quali gli asili nido e le scuole dell’infanzia comunali hanno una tradizione ampia e radicata, coprono una parte consistente e spesso maggioritaria dell’offerta, forniscono servizi di qualità elevata, fungendo da punto di riferimento per i soggetti privati che operano in questo campo.



Il caso del Comune di Modena

In tale contesto il Comune di Modena, governato da una coalizione di centro-sinistra, sta mettendo a punto una soluzione innovativa, che cerca di contemperare la necessità di garantire i servizi per l’infanzia in presenza di forti vincoli alle assunzioni pubbliche e quella di salvaguardare un’esperienza di qualità riconosciuta a livello nazionale e internazionale.

Nell’anno scolastico 2011-12 a Modena il sistema comunale, che comprende gli asili nido e le scuole dell’infanzia, pubblici e privati, che ricevono fondi dal Comune e tra le quali le famiglie hanno possibilità di scelta, presenta una composizione mista:

su 1.835 posti di asili nido, 965 (il 52,6%) sono garantiti da strutture comunali e i restanti da soggetti convenzionati (privati for-profit, non-profit e nidi aziendali);

su 4.902 posti nelle scuole dell’infanzia, le strutture a gestione diretta comunale coprono il 35,5% dei posti totali (1.740), quelle statali coprono il 17,9% dell’offerta (877 posti), le scuole di matrice religiosa aderenti alla FISM (Federazione Italiana Scuole Materne) il 37,0% (1.815 posti), quelle selezionate dal Comune mediante gara d’appalto e gestite da due Fondazioni ex IPAB il 9,5% (470 posti).



La presenza del settore pubblico comunale è quindi rilevante, per quanto sia andata diminuendo nel corso del tempo. Negli ultimi nove anni il numero di posti negli asili nido è cresciuto di 612 unità, tutte in strutture convenzionate, e quello dei posti nelle scuole dell’infanzia di circa 650 unità, di cui 125 in scuole statali, 380 in scuole FISM e 150 in strutture appaltate (i dati sono stati forniti dall’Assessorato all’Istruzione del Comune di Modena, che si ringrazia per la collaborazione).

Le disposizioni normative che limitano le assunzioni dei pubblici dipendenti negli enti locali rischiano di mutare molto velocemente questo equilibrio, determinando una progressiva prevalenza dei soggetti privati, non più per effetto dell’espansione dell’offerta complessiva mantenendo inalterata, in termini assoluti, la componente pubblica, ma bensì per la drastica contrazione dell’offerta pubblica comunale. Infatti, mentre nel 2009 il Comune di Modena riusciva a coprire quasi tutti i posti con personale a tempo indeterminato, a causa di pensionamenti e trasferimenti ad altri enti oggi presenta 35 posti vacanti, coperti con personale assunto con contratti a tempo determinato. E’ evidente che solo una parte di tali contratti potrà essere rinnovata, 15 in tutto il Comune di Modena, mentre i posti vacanti sembrano destinati ad aumentare nel corso del 2012 e nel 2013 (dati tratti da un documento redatto dal Coordinamento delle Scuole dell’Infanzia e dei Nidi dopo un incontro con l’Assessore all’Istruzione tenuto l’8 febbraio 2012).

La carenza di personale con contratto a tempo indeterminato è particolarmente grave nelle scuole dell’infanzia, dove negli ultimi due anni quasi una ventina di insegnanti sono passate allo Stato, che propone condizioni contrattuali più favorevoli rispetto agli enti locali. Peraltro, la graduatoria comunale delle insegnanti in possesso di abilitazione e quindi in condizione di essere assunte a tempo indeterminato dispone ancora di 8 nominativi, mentre le unità di personale abilitato trasferibili da altri servizi comunali sono in tutto 2. In tale situazione, il Comune di Modena rischia quindi di non poter garantire l’apertura di alcune sezioni e strutture già nell’anno scolastico 2012-13 e quindi di non essere in grado di assicurare ad ogni famiglia richiedente un posto per i propri figli nelle scuole dell’infanzia.

A breve termine invece gli asili nido presentano una condizione di minore sofferenza grazie ad assunzioni compiute negli anni passati. Tuttavia anche nei servizi 0-3 anni la carenza è inevitabilmente destinata a presentarsi, nel caso si protraggano i vincoli alle assunzioni e, più in generale, le restrizioni poste alle disponibilità della finanza pubblica locale.

Il problema del personale delle scuole dell’infanzia comunali è emerso progressivamente a partire dall’ultima parte del 2011, per giungere prepotentemente alla ribalta cittadina nei primi mesi del 2012. Esso inoltre si è intrecciato al dibattito sul bilancio preventivo per il 2012, non ancora approvato a testimonianza delle difficoltà in cui si dibatte l’amministrazione comunale, pur in una situazione finanziaria che, per il pregresso, appare positiva. Il bilancio per il 2012 vede un taglio delle risorse a disposizione del Comune, rispetto al 2011, pari a 36 milioni 800 mila euro (-17%). La proposta di manovra della giunta comunale, attualmente oggetto di discussione con le organizzazioni degli interessi e il mondo dell’associazionismo, prevede di colmare la mancanza di tali risorse per più di 10 milioni di euro attraverso misure di contenimento della spesa e di miglioramento dell'efficienza e per poco meno di 26 milioni di euro attraverso maggiori entrate fiscali, agendo principalmente sulla nuova aliquota Imu e sulle addizionali Irpef (Modena Comune, Aprile 2012).



Che fare? Dall’esternalizzazione alla fondazione

Per far fronte alla prevista carenza di personale nelle scuole dell’infanzia la prima opzione che si è presentata è quella dell’esternalizzazione di un numero non chiaramente definito di strutture comunali mediante gara di appalto, con affidamento a soggetti selezionati mediante gara d’appalto. Per alcuni questa ipotesi si inseriva in un quadro di trasformazione radicale dei servizi alla persona, nel quale il settore pubblico doveva progressivamente ridurre al minimo le funzioni di gestione diretta, per assumere più compiutamente quelle di programmazione e di controllo di soggetti privati, for-profit e non-profit. In questo senso ad esempio si esprime, dall’opposizione, il capogruppo cittadino in Consiglio comunale e coordinatore regionale dell’Udc, Davide Torrini, che parla di “cedere una certa quantità di sezioni della scuola materna e dei nidi di infanzia”, scendendo al 15-20% dell’offerta per la materna, “riuscendo comunque a mantenere il controllo del servizio”, ventilando anche la possibilità di affidare le scuole, oltre che a soggetti privati, a insegnanti riunite in “cooperative” (Il Resto del Carlino - Modena, 21 agosto 2011). Torrini richiama anche la necessità di “razionalizzare i costi, soprattutto in ambito educativo”, anche riducendo gli standard per gli asili e quelli dell’accreditamento per i servizi agli anziani: “bisogna fare una scelta: o i servizi costano meno oppure qualcuno deve restare fuori… sui servizi a mio avviso bisognerebbe identificare una soglia di qualità sotto la quale non si possa scendere ma garantendo costi di gestione minori di quelli attuali” (L’Informazione, edizione di Modena, 25 novembre 2011).

L’idea di avviare un processo di significativa esternalizzazione viene condivisa anche da esponenti del mondo economico tradizionalmente vicino alla sinistra, come Lega Coop, il cui presidente provinciale Lauro Lugli, secondo il resoconto riportato dalla stampa locale, auspica fortemente “l’esternalizzazione della gestione di una serie di servizi come asili, scuole e strutture di assistenza, che comporterebbe una significativa razionalizzazione dei costi, pur mantenendo un elevato livello di professionalità e servizio” (La Gazzetta di Modena, 28 novembre 2011). Anche altre componenti delle categorie produttive e dell’imprenditoria locale condividono posizioni simili, come diventerà palese in momenti successivi.

Nei primi mesi del 2012 l’esternalizzazione delle scuole dell’infanzia si precisa e giunge più apertamente all’attenzione dell’opinione pubblica. L’idea che si fa strada è quella di approvare una delibera di Consiglio comunale in cui si prospetta di affidare all’esterno due scuole dell’infanzia mediante gara d’appalto e di chiedere per altre due la statalizzazione riservandosi, nel caso probabile in cui questa non sia ottenuta, di appaltare anche la gestione di queste scuole.

L’amministrazione però si riserva di approfondire anche la possibilità di costituire una fondazione di partecipazione per le quattro scuole dell’infanzia, quale soluzione alternativa all’esternalizzazione. La fondazione, che gestirebbe le scuole, è un soggetto di diritto privato che opera senza fini di lucro. Esso potrebbe appaltare la gestione o invece esercitarla in forma diretta, assumendo personale dipendente. L’organo principale di governo della fondazione sarebbe rappresentato da un Consiglio di amministrazione, i cui membri sarebbero nominati dal Comune che, in questo modo, garantirebbe “controllo analogo” a quello garantito nella gestione diretta rispetto al servizio erogato dalla Fondazione (il concetto di “controllo analogo “ è introdotto dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nella sentenza Commissione v. Italia dell’8 aprile 2008, C-337/05).

Pur in presenza di esperienze in qualche modo accostabili nel settore sanitario e in quello socio-assistenziale, attivate soprattutto in Lombardia, la conversione di strutture pubbliche in fondazioni è una novità pressoché assoluta nei servizi per l’infanzia 0-6 anni. Nell’ipotizzare questa soluzione l’amministrazione comunale ha di fronte, nel panorama scolastico modenese, la costituzione, a Modena come altrove, di una fondazione di partecipazione per la riorganizzazione dei percorsi di formazione professionale di Istruzione e Formazione Superiore (IFS) e la conversione di due vecchie Ipab in fondazioni per la gestione di scuole dell’infanzia a Modena, con l’erogazione del servizio appaltata a soggetti privati.

Inizialmente la fondazione sembra un’ipotesi secondaria, per le difficoltà di progettare e realizzare un’innovazione ricca di implicazioni giuridiche e organizzative assai complesse con un tempo a disposizione assai limitato, dovendosi garantire la riapertura del servizio per settembre 2012. L’esternalizzazione pare quindi la soluzione più probabile, almeno sul breve termine. Ciò emerge chiaramente prima in un incontro, tenutosi l’8 febbraio 2012, tra l’Assessore all’Istruzione Adriana Querzè e il Coordinamento dei Consigli degli asili nido e delle scuole dell’infanzia di Modena (gli organismi di rappresentanza eletti dai genitori nelle scuole); poi, in un’assemblea pubblica con i genitori e le insegnanti delle scuole svoltasi il 6 marzo, con la partecipazione del Sindaco Giorgio Pighi e dell’Assessore all’Istruzione.

In tali incontri l’esternalizzazione viene presentata come una strada obbligata, percorsa a malincuore dal Comune, che l’accompagna con iniziative nazionali volte ad escludere la scuola dai vincoli sulle assunzioni degli enti locali posti dal patto di stabilità, attivando in tal senso l’Anci e i parlamentari modenesi. Questo modo di prospettare l’esternalizzazione, comprensibile in un contesto di forte radicamento dei servizi per l’infanzia comunali e della scuola pubblica, suscita il malumore del mondo del terzo settore e delle associazioni di categoria e rischia di innescare una contrapposizione pubblico-privato di fatto ampiamente superata all’interno di una rete consolidata di offerta ampiamente pluralistica.

E’ evidente a tutti, peraltro, che la posta in gioco non consiste nell’esternalizzazione di due o quattro scuole ma, in un’ottica di medio-lungo termine, nell’avvio di un riassetto complessivo delle modalità gestionali dei servizi educativi, che porterebbe ad un forte ridimensionamento della presenza diretta pubblica.

La prospettiva concreta dell’esternalizzazione genera una forte mobilitazione della comunità locale, che vede in prima fila educatori e insegnanti delle scuole comunali e, soprattutto, i genitori. All’inizio di marzo si costituisce infatti un Comitato di genitori (“Giù le mani dagli asili”), che in alcune settimane raccoglie più di 7.500 firme contro le esternalizzazioni. Il 17 marzo si svolge poi una sorta di manifestazione molto partecipata in cui le insegnanti, assieme a genitori e bambini, espongono alla collettività i lavori realizzati dai bambini degli asili nido e delle scuole dell’infanzia comunali. Anche i sindacati, come prevedibile, sono contrari all’ipotesi di esternalizzazione, date le implicazioni esistenti in termini di peggioramento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori delle scuole coinvolte.

La protesta spinge l’amministrazione comunale prima a rallentare e poi a rivedere completamente il percorso verso le esternalizzazioni, che vengono accantonate a favore dell’ipotesi della fondazione. Sotto il forte impulso dell’Assessore all’Istruzione, viene infatti definito un progetto di costituzione di una fondazione di partecipazione per la gestione diretta di quattro scuole dell’infanzia, verificata nel frattempo l’impossibilità della statalizzazione. La fondazione dovrebbe assumere 24 insegnanti di scuola dell’infanzia, che diventerebbero quindi dipendenti del nuovo soggetto privato. Il passaggio verrà effettuato progressivamente nel corso di tre anni, a partire dalle insegnanti delle sezioni dei tre anni per l’anno scolastico 2012-13; alle insegnanti delle sezioni 4 e 5 anni verrà prospettata la soluzione del comando, in modo da assicurare la continuità didattica ed educativa per i bambini delle scuole interessate. Oltre a permettere di superare i vincoli posti dalle misure connesse al patto di stabilità, la fondazione presenta vantaggi di carattere contributivo e previdenziale per l’ente locale.

La fondazione dovrebbe prevedere un organo di governo composto interamente da membri nominati dall’amministrazione comunale. L’ipotesi avanzata inizialmente di inserire rappresentanti dei genitori all’interno dell’organo di governo è stata accantonata per ragioni di carattere normativo. In coerenza con l’idea della fondazione di partecipazione, tuttavia, sono allo studio modalità tecniche per garantire forme di rappresentanza dei genitori che garantiscano a questi forme sostanziali di coinvolgimento nelle scelte di indirizzo e nel controllo della gestione delle scuole. Allo stesso modo, sono state ipotizzati meccanismi di partecipazione più o meno diretta al governo della fondazione da parte del personale.

L’approvazione delle linee guida sul nuovo soggetto dovrebbe avvenire entro aprile, mediante delibera del Consiglio comunale. Entro 45 giorni dal ricevimento degli atti la Regione dovrà poi fornire l’autorizzazione alla costituzione del nuovo soggetto. Se, come pare scontato, la Regione darà parere positivo, si passerà quindi all’approvazione dello statuto e alla creazione della fondazione.

Molte saranno ovviamente le questioni di carattere organizzativo e gestionale che dovranno essere affrontate per dare vita ad un soggetto caratterizzato da un alto tasso di innovazione istituzionale. Prima di tutto, occorrerà definire quale contratto collettivo di lavoro verrà applicato alle insegnanti dipendenti dalla fondazione: su questo è in corso un confronto tra l’amministrazione e i sindacati, che hanno dato per ora il loro assenso all’ipotesi della fondazione. Nelle esperienze precedenti nel settore sanitario e assistenziale le problematiche di carattere contrattuale e quelle, collegate, relative alla gestione del personale hanno presentato numerosi aspetti critici e di non facile soluzione, in particolare nei casi di compresenza tra dipendenti pubblici soggetti a comando e dipendenti privati dei nuovi soggetti di diritto privato. In questo caso, tuttavia, la compresenza dovrebbe essere solo temporanea.

Negli intenti dell’amministrazione, la nuova fondazione non rappresenta una soluzione ponte concepita per fronteggiare l’emergenza, ma un nuovo soggetto che, attivamente inserito nella rete dei servizi per l’infanzia comunali, possa sviluppare esperienze di innovazione in campo didattico e pedagogico. La natura giuridica di soggetto privato può infatti garantire una flessibilità organizzativa e gestionale adatta a sperimentare soluzioni innovative, nonché assicurare una maggiore facilità a reperire finanziamenti privati rispetto ai soggetti pubblici.

Ovviamente, in caso di successo, la fondazione potrà divenire un polo di aggregazione per altre scuole dell’infanzia comunali, ove dovessero perdurare le condizioni di difficoltà per la gestione dei servizi da parte degli enti locali. Come ha dichiarato l’Assessore all’Istruzione Querzè in un’intervista al mensile che il Comune di Modena distribuisce per posta alle famiglie, “il nostro impegno è mettere in piedi una fondazione che, anche negli anni a venire, ci consenta di gestire i servizi per l'infanzia con una formula nuova ma con la qualità di sempre perché le scuole sono uno degli elementi fondamentali per l'identità del nostro territorio. Oggi – conclude l'assessore – ci troviamo davanti a una sfida simile a quella degli anni Settanta: allora fu necessario inventare nuovi servizi per una società che cambiava, adesso tocca a noi trovare le strade per modificare e rinnovare quei servizi, rispettandone la qualità e i valori originari” (Modena Comune, Aprile 2012).



Tutti d’accordo? La scommessa della fondazione tra pubblico e privato

La soluzione trovata con la creazione di una fondazione soddisfa il Comitato dei genitori, che riconosce all’amministrazione locale e, in particolare all’Assessore all’Istruzione, il merito di avere saputo ascoltare la cittadinanza e quello di avere escogitato una risposta adeguata alla situazione. In un volantino distribuito nelle scuole dell’infanzia il 4 aprile, il Comitato dei genitori ringrazia l’Assessore “per il coraggio, la lungimiranza e la capacità di ascolto dei cittadini, oltre che per la sua competenza”. Anche i sindacati e la comunità professionale delle scuole comunali sembrano avere accettato la situazione, percepita quanto meno come il “male minore” rispetto all’esternalizzazione.

Non è dello stesso avviso l’opposizione di centro-destra, che parla di escamotage per aggirare i vincoli del patto di stabilità e accusa l’amministrazione di condurre una battaglia di retroguardia, finendo con l’aumentare le tasse invece di tagliare le spese (“Il Comune di Modena tassa alle stelle i cittadini ma intanto crea fondazioni per non tagliare la spesa” scrive in una nota il consigliere regionale modenese del Pdl Andrea Leoni il 26 marzo). Ma soprattutto non paiono apprezzare l’idea della fondazione diverse componenti del mondo economico. In un documento pubblicato il 29 marzo Cna, Confcommercio, Confesercenti e Lapam, lamentando lo sbilanciamento sulle entrate dell’operazione di recupero dei tagli alla spesa previsti nel bilancio 2012, chiedono “un piano di esternalizzazione di servizi all’infanzia, tale comunque da garantire il governo sui servizi stessi da parte dell’amministrazione… crediamo che un processo di esternalizzazione costruito con regole chiare, rigorose e requisiti molto selettivi permetterebbe, in servizi di primaria rilevanza come quelli dell’infanzia di mantenere in capo al pubblico il compito di definire l’orientamento didattico, così come il necessario esercizio della funzione di controllo sulla qualità del servizio erogato… un’azione, questa, che da un lato consentirebbe di valorizzare in un’ottica di sussidiarietà la partnership con il settore privato nella gestione di alcune strutture e dall’altro determinerebbe un’essenziale riduzione dei costi” (Prima Pagina, 30 marzo 2012).

Di fronte a tali posizioni, il Comitato dei genitori si esprime con inusitata chiarezza, oltre che con notevole enfasi: “a coloro che sostengono che la scuola modenese sia solo un costo da sfrondare diciamo: siamo estremamente felici di avere pagato tasse che ci hanno ripagato con un servizio pubblico sulla scuola 0-6 che il mondo intero ci invidia” (volantino del Comitato “Giù le mani dagli Asili di Modena”, 4 aprile 2012).

Perplessità sulla soluzione della fondazione, ma prima ancora sui termini del dibattito che hanno portato alla scelta, vengono espresse anche dal mondo dell’associazionismo e del terzo settore. Paolo Ferrari, presidente di Federsolidarietà Modena, l’organizzazione che riunisce le cooperative sociali aderenti a Confcooperative, afferma che “l’azione dei cittadini a difesa dei servizi comunali è legittima e comprensibile. Non è condivisibile invece la contrapposizione tutta ideologica tra pubblico e privato. Si asserisce che il pubblico, a differenza del privato, garantisce professionalità e qualità. Oltre a non corrispondere per nulla alla realtà dei fatti, questa affermazione nuoce di rispetto alle persone che lavorano nelle scuole gestite dal privato sociale e alle famiglie che continuano a mandare i propri figli in queste strutture” (Modena 2000, 22 marzo 2012). In termini simili si esprime anche il Forum del Terzo Settore di Modena. Infine, in un’intervista ad un quotidiano locale, la presidente dell’Arci di Modena Greta Barbolini invita tutti a non aspettarsi “che le fondazioni risolvano tutti i mali di questa crisi. Saranno certamente utili nell’immediato, ma qui occorre una riprogettazione complessiva che tenga conto di fattori mutati… Le fondazioni non moltiplicano i pani e i pesci. Come capita in alcune fasi ci si concentra di più sugli strumenti che sugli obiettivi. Non è tempo di scorciatoie adesso, altrimenti queste scelte le pagheremo dopo” (Gazzetta di Modena, 4 aprile 2012).

L’importanza di mantenere un’offerta “forte” e non residuale di scuole comunali, all’interno di un sistema di welfare mix in cui il ruolo dei soggetti privati è assai rilevante, viene invece rivendicata dall’Assessore all’Istruzione. Nella lettera inviata ai parlamentari modenesi in data 8 marzo, cui anche il Comitato genitori fa riferimento, si afferma infatti che “in questi quarant’anni il sistema educativo e scolastico modenese per bambini da zero a sei anni è cresciuto in un’ottica di integrazione fra istituzioni pubbliche e private che consente oggi di offrire un posto al nido e alle scuole dell’infanzia a tutti i richiedenti. Anche il privato e il privato sociale, che tanto si sono spesi in questa città, riconoscono che la presenza di un nucleo forte di strutture comunali e l’efficacia dell’azione di programmazione e controllo dell’Ente locale hanno contribuito alla creazione di un sistema ampio, equilibrato e di qualità”. In queste parole si trova una delle argomentazioni portate più frequentemente a sostegno di una gestione diretta pubblica non residuale, vale a dire il fatto che essa sia necessaria all’ente pubblico per esercitare un’efficace azione di indirizzo e controllo sugli altri soggetti che gestiscono i servizi, oltre che sulle proprie strutture, al fine di garantire il perseguimento dell’interesse collettivo.

Da queste posizioni emerge chiaramente una delle questioni di fondo portate alla luce nella vicenda, relativa al ruolo che deve assumere un ente pubblico nella fornitura di servizi alla persona, in un contesto di difficoltà crescenti del sistema economico-produttivo a sostenere i costi del welfare. Non si tratta certamente di un problema sorto negli ultimi tempi, ma la crisi finanziaria e le politiche di austerità nella finanza pubblica messe in atto per fronteggiarla sembrano porre i soggetti pubblici e, in primo luogo, gli enti locali, verso scelte dirimenti e non più rimandabili.

E’ infatti probabile che nei prossimi anni gli enti locali e, tra questi, soprattutto i Comuni siano chiamati a decidere se continuare a gestire direttamente servizi alla persona in modo non residuale, o invece optare con decisione per l’adozione di un modello organizzativo e gestionale nel quale essi svolgano prevalentemente o esclusivamente funzioni di programmazione, indirizzo e controllo, oltre che almeno in parte di finanziamento, di servizi erogati da soggetti privati, for-profit e non-profit. La questione si pone in particolare in relazione ai servizi per l’infanzia 0-6 anni, dove la gestione diretta comunale è non solo quantitativamente assai cospicua in buona parte del territorio nazionale, ma anche qualitativamente di livello elevato risultando, in termini comparati, spesso migliore di quella statale e privata.

La scelta presenta alcuni trade-off non facilmente risolvibili. La gestione diretta pubblica offre maggiori garanzie in termini di qualità delle prestazioni, oltre che nelle condizioni di lavoro del personale, un aspetto fondamentale in questo tipo di servizi. D’altro canto essa rischia fortemente di non essere più in grado di garantire un servizio dotato di caratteri di universalità o, comunque, capace di soddisfare un’ampia quota della domanda proveniente dai cittadini. Un affidamento tendenzialmente completo alla gestione privata sembra fornire una soluzione a questo problema, ma al contempo può presentare dei rischi in termini di qualità complessiva del servizio, se non altro perché la dismissione della gestione comunale porterebbe in molti casi alla dispersione di un patrimonio consolidato e ampiamente riconosciuto di esperienze e di competenze maturate nel corso di decenni. A questo si aggiunge poi il rischio che, privato della gestione diretta, il settore pubblico non sia più in grado di svolgere funzioni di regolazione e controllo dell’offerta privata.

All’interno di tale dilemma, la scelta sembra pendere decisamente verso la seconda opzione, e quindi verso un processo di massiccia esternalizzazione dei servizi comunali per l’infanzia. Tuttavia, il caso modenese pare suggerire che vi siano delle opportunità di sfuggire ad un’alternativa di carattere dicotomico, mediante la conversione delle strutture pubbliche in forme societarie di carattere ibrido pubblico-privato, come le fondazioni.

Al di là della possibilità di far fronte ai vincoli posti all’assunzione di personale pubblico, le fondazioni possono erogare prestazioni in modo più efficiente rispetto alle strutture pubbliche, godendo di un maggiore grado di flessibilità organizzativa e gestionale. Al contempo, esse sembrano fornire all’ente pubblico maggiori possibilità di controllo sulla gestione rispetto all’appalto di servizi a soggetti esterni. Tali opportunità sembrano accomunare le fondazioni con altri soggetti, come le società a capitale misto, rientranti forse in modo più compiuto nell’ormai nota categoria delle public-private partnership o “collaborazioni pubblico-privato” di tipo istituzionale. Le public-private partnership di tipo istituzionale sono forme di collaborazione tra pubblico e privato caratterizzate dalla “creazione di un'entità detenuta congiuntamente dal partner pubblico e dal partner privato. Tale soggetto comune ha quindi la missione la fornitura di un’opera o di un servizio a favore del pubblico” (Commissione delle Comunità Europee, Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, COM(2004) 327 definitivo, 2004, pp. 18-19).

Queste potenzialità spingono ad ipotizzare che le fondazioni e le forme di partnership pubblico-privato possano rappresentare un tentativo di risposta alle difficoltà crescenti ad assicurare la gestione pubblica diretta in quei servizi nei quali permane un diffuso giudizio negativo sulla privatizzazione piena delle strutture di erogazione, anche se operanti sotto finanziamento pubblico. E’ il caso, in particolare, dei servizi sanitari e di quelli per l’infanzia, in cui si ritiene opportuno limitare il ricorso ai contratti di fornitura e agli affidamenti a soggetti privati, per quanto tali modalità gestionali abbiano un ruolo rilevante nei sistemi dell’offerta.

Solo il tempo sarà però in grado di dire se tali assetti societari siano effettivamente in grado di superare le criticità presenti nell’alternativa tra pubblico e privato, imponendosi come modello gestionale stabile per l’erogazione dei servizi alla persona, o se invece si tratta semplicemente di scelte contingenti, destinate a scomparire una volta finita la fase di emergenza finanziaria.

*Stefano Neri è ricercatore di Sociologia Economica presso il Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare, Università degli Studi di Milano.

"Riforma della scuola" n°14

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venerdì 30 dicembre 2011

La scuola per tutto l’arco della vita, per il lavoro e lo sviluppo sostenibile

Paolo Rebaudengo*

Nonostante il susseguirsi di riforme e innovazioni, il sistema educativo italiano non sembra riuscire a rispondere adeguatamente alle molteplici esigenze espresse dal tessuto sociale ed economico, faticando a conquistare quella posizione di centralità, vuoi in funzione dello sviluppo del Paese, vuoi per sostenere e aiutare i momenti di crisi, quale quello che stiamo attualmente vivendo (Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2011, parte seconda 2.3 - un sistemo formativo fuori centro)


Quale scuola vogliamo per questo Paese? Quale sistema educativo e formativo per i bambini, gli adolescenti, i ragazzi? Quale università e quale formazione professionale? Quale educazione e formazione continua?
Per quale lavoro, quale attività, quale vita, quale condizione umana, quale speranza di felicità, quale possibilità che ciascun bambino e ciascuna bambina possa diventare Presidente della Repubblica, come dice la voce fuori campo del documentario “Nessuno ci ascolta” prodotto dal Comune di Bologna sulla ricostruzione della città e della scuola nell’immediato ultimo dopoguerra?
Qualcuno saprebbe citare un Paese che abbia deciso di ridurre l’età minima per l’ingresso al lavoro? E’ successo in Italia con il Governo di centro-destra caduto nel novembre 2011, riducendola dai 16 anni (in alcuni Paesi europei è a 18) ai 15. E nello stesso provvedimento di legge del 19 ottobre 2010 si dice che la formazione prevista dai contratti di apprendistato può essere svolta interamente in azienda, mentre risulta che solo il 20% degli apprendisti partecipi a corsi formativi. Perché è stato fatto? Perché le imprese chiedono, senza trovarli, molti giovani? Assolutamente no, anzi la disoccupazione giovanile è drammaticamente alta, anche a Bologna. La ragione è più semplice e anche più penosa: tenere a scuola i ragazzi e le ragazze il meno possibile, specie se di famiglie povere, figli d’immigrati, di operai, di disoccupati. E così si stabilisce che il contratto di apprendistato possa assolvere all’obbligo scolastico sin dai 15 anni, cancellando l’innalzamento dell’età minima di accesso al lavoro a 16 anni fissata dal Governo Prodi con la Legge Finanziaria 2007 in relazione all’innalzamento dell’obbligo scolastico ad almeno 10 anni di frequenza.

L’iscrizione alla scuola secondaria di secondo grado è ormai generalizzata ma il tasso di diploma non supera il 75%, con molti abbandoni nel primo biennio (proprio quello sul quale abbiamo inutilmente e a lungo discusso sulla necessità di dargli unitarietà – se non unicità- proprio per contrastare questo fenomeno). E se il 65% dei diplomati si iscrive all’Università, poi una matricola ogni cinque non arriva alla laurea. Secondo l’ultima indagine Unioncamere sulla domanda di lavoro delle imprese private, per il 33% di assunzioni previste non è richiesta alcuna formazione specifica, preferendo guardare alle sole esperienze pregresse: a dimostrazione dell’arretratezza delle imprese e/o della scuola? (l’argomento meriterebbe un ampio approfondimento). Inoltre siamo tra i Paesi con il minor numero di laureati e, contemporaneamente, il Paese con il tasso più basso (il 76%) di occupazione per i laureati, mentre il loro tasso di disoccupazione è salito nel solo biennio di crisi 2007-2009 (che però perdura….) dall’11 al 16% (e al 18% per gli specialistici).
Una recente indagine dell’Istat segnala che quasi la metà dei laureati e dei diplomati al primo impiego sono sotto inquadrati: è semplicemente un fenomeno di “sfruttamento” da parte delle imprese oppure d’inizio della carriera molto al di sotto delle competenze anche per miopia e inerzia dell’organizzazione, oppure di divario tra titoli di studio e competenze necessarie o, infine, di un mix di queste cause?

Gli intenti del recente decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167 sull’apprendistato, che ha ricevuto plausi da destra e da sinistra, dai sindacati dei lavoratori e delle imprese, sono senz’altro positivi: attraverso di esso i giovani possono acquisire sul lavoro, dai 15 anni di età, qualifiche e diplomi professionali, lauree e perfino dottorati. Il nuovo apprendistato è “un contratto di lavoro a tempo indeterminato” – seppure preveda al suo termine la “libera recedibilità” – “finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani. Assume tre possibili tipologie:
a) apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (15 – 25 anni, durata massima 3/4 anni);
  b) apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere (18 – 29 anni, durata massima 3 anni, 5 per il settore dell’artigianato). La formazione sarà definita dalla contrattazione collettiva e dovrà integrarsi con la formazione pubblica regionale, interna o esterna all’azienda, per un monte ore complessivo per tutto il triennio pari a 120 ore;
c)  apprendistato di alta formazione e ricerca (18 – 29 anni).1
Tutto ciò richiede che ogni impresa sia un’«impresa formativa» e ben sappiamo quanto ne siamo lontani: questa prospettiva potrebbe peraltro risultare interessante o potrebbe/potrà essere perseguita, all’interno di un sistema dell’istruzione e formazione professionale iniziale e continuo collegato organicamente con le imprese, per la pratica dell’alternanza scuola-lavoro, ove esse si qualifichino per svolgere sul serio l’azione formativa richiesta dal “nuovo” apprendistato e, forse, così, migliorare anche la propria organizzazione e aprirsi anche ai suggerimenti dei giovani, come succede in Germania. Tuttavia appare evidente il divario tra le esigenze di una transizione dalla scuola a un lavoro qualificato e ben retribuito (che richiederebbe una riqualificazione dell’intero sistema della scuola secondaria) e la norma sull’apprendistato, seppure sostenuta dalle intese con le Regioni e con le parti sociali (la sola segreteria confederale della Cgil, firmataria dell’intesa, esprime il dissenso per l’avvio dell’apprendistato già dai 15 anni di età e per il suo utilizzo anche per la riqualificazione dei lavoratori in mobilità), specialmente se consideriamo i dibattiti, le ricerche, le iniziative e gli investimenti adottati in tanti altri Paesi in Europa, in Asia, in America in questo campo.

Dopo la riforma Moratti, il Ministero Fioroni, la riforma Gelmini, coesistono le norme su obbligo scolastico e obbligo formativo, diritto-dovere, obbligo di istruzione, mentre è avvenuto l’innalzamento (col centro-sinistra) e la riduzione (col centro-destra) degli anni effettivi di scuola obbligatoria. La prudenza (e le difficoltà di bilancio, già allora) del centro sinistra aveva portato a dieci anni di scuola (minimo) per garantire a tutti un diploma o almeno una qualifica, quando ne servivano undici per arrivare almeno alla qualifica, così che (forse) è stato più facile per il centro-destra tornare indietro sino alla sola terza media. Ed è stato lasciato il segmento dell’istruzione professionale nel doppio girone infernale, quello di serie B, nei corsi statali, e quello di serie C nei corsi regionali, salvo le iniziative regionali sulla formazione superiore post-diploma non accademica, unica vera innovazione positivo dell’intero sistema, che, sia pure giunta (non certo per colpa delle Regioni) con tanti anni di ritardo, consente di guardare con maggiore speranza al futuro della f.p. quantunque affrontata dal tetto anziché dalle fondamenta.

E sulle due culture del nostro sistema educativo non sono stati fatti molti passi avanti. Dice Luigi Berlinguer: “Il lavoro ed il sapere sono due facce della stessa medaglia: sono la fonte produttiva per eccellenza. Non c’è vera libertà ed effettiva uguaglianza, oggi, senza sapere, senza una sua ampia diffusione ed affermazione. Una società equa e inclusiva, una democrazia matura ed evoluta, rispettosa della persona, delle sue vocazioni, della sfera dei suoi diritti è oggi possibile soltanto se si garantisce il più ampio accesso al sapere. La nuova scuola deve dare sapere, utilità, competenze. Essa deve dare di più di quello che chiede il mercato del lavoro, mirare costantemente ad allargare l’offerta formativa. La nuova scuola è la casa dell’utile e del bello, della responsabilità sociale e della creatività. L’alunno deve sentire che è la sua casa, aperta tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. E per farla sentire veramente come propria, occorre che la nuova scuola sia strutturata su basi nuove, su spazi aperti, che creino anche fisicamente il senso di una comunità di apprendimento, e che si svolga con tempi flessibili, lunghi, articolati”.

Si parla spesso di competitività a livello del Paese, per dire che l’Italia lo è sempre meno. Ma cosa sia, se e come si misuri resta nel vago. Recentemente la Commissione europea, con un Report che individua un “indice di competitività regionale”, ha misurato il livello delle 268 regioni dell’UE, attraverso indicatori per ciascuno di undici “pilastri” fondamentali, tra i quali di grande importanza tre che riguardano la qualità della scuola primaria e secondaria, la qualità di quella universitaria e della formazione continua, l’efficienza del MdL.
La competitività territoriale è la capacità dell’economia e del sistema sociale di quel territorio di attirare e tenere nel tempo imprese con una fetta di mercato stabile o crescente e contemporaneamente produttrici di standard di vita stabili o in crescita per le persone che vi prendono parte, il tasso di occupazione in settori come quelli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, gli investimenti diretti dall’estero che contribuiscono a rafforzare il capitale e la dotazione tecnologica e il numero delle imprese, dell’interconnessione tra imprese e fornitori, la concentrazione di risorse umane specializzate in settori ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia.

La formazione continua costituisce un indicatore significativo per le economie regionali più avanzate, poiché mentre la globalizzazione annulla le forme tradizionali di vantaggio competitivo, divengono sempre più importanti le caratteristiche culturali del territorio ove sono localizzate le imprese. L’Italia è tra i Paesi europei con il maggior divario tra le proprie regioni. Ecco perché scuola e mezzogiorno restano due questioni nazionali centrali e prioritarie.

La nostra regione è forse quella che ha pagato il prezzo più alto della scellerata politica del governo Berlusconi-Tremonti, specie per la scuola, l’Università, la ricerca e la cultura, la cui strozzatura, insieme alle inefficienze del sistema giudiziario e all’alto livello della corruzione ha costituito il più grave impedimento allo sviluppo delle nostre potenzialità, facendoci fare passi indietro nel cammino dello sviluppo economico e sociale.
A livello internazionale è segnalata l’arretratezza del nostro Paese, anche nelle regioni più sviluppate, nel campo dell’educazione degli adulti, della formazione continua e ricorrente. Più in generale, l’abissale distanza tra il sistema “vocational” (di formazione professionale) italiano e quelli degli altri Paesi industriali non è colmabile senza un cambiamento radicale dell’ordinamento, un superamento delle “due culture” e della separazione tra lavoro manuale e intellettuale, il riconoscimento che non c’è produzione materiale senza contenuti culturali, la valorizzazione della scienza, della tecnica e della tecnologia in tutti gli indirizzi di studio, liceali, tecnici e professionali, la valorizzazione del lavoro.
Gli ITS dovranno essere sviluppati: ciò richiede che nelle Fondazioni di Partecipazione che danno vita agli ITS aderisca un maggior numero di imprese (di tutto il territorio regionale e/o di dimensione nazionale o internazionale), di elevata qualità tecnologica e attive nella ricerca e sviluppo e con potenziali sufficienti a far prevedere l’assorbimento dei diplomati; esse dovranno costituire un positivo e valido ambiente formativo grazie all’impegno di tutor appositamente formati, tecnici e dirigenti, a un’alta qualità dell’organizzazione, a una cultura industriale e tecnologica diffusa, alla formalizzazione delle procedure, alla qualità e quantità di investimenti nello sviluppo del personale e nella sua formazione e aggiornamento continuo, ai rapporti internazionali; esse dovranno essere disponibili a condividere con le altre imprese la formazione dei giovani, in accordo e coordinamento con l’ITS e con i soggetti partner universitari; l’ITS, insieme ai Dipartimenti universitari, dovrà svolgere un’efficace azione di orientamento dei candidati all’iscrizione e dei diplomandi; dovrà essere definito un curriculum di studio nettamente alternativo a quello della laurea triennale; una parte significativa dei docenti dovrà essere costituita da visiting professor provenienti da analoghe istituzioni estere di alto livello; il numero degli ITS si dovrà espandere sino a coprire le esigenze di formazione superiore professionalizzante non accademica in tutti i settori economici.
Occupazione e sviluppo economico e sociale del territorio sono significativamente legate alla qualità del sistema educativo e della formazione professionale iniziale e continua e al numero di giovani in possesso di almeno un diploma o una qualifica. Non c’è settore economico, in agricoltura, nell’industria, nei servizi, nel settore privato, pubblico o cooperativo, i cui addetti non abbiano l’esigenza di partecipare periodicamente ad attività formative di qualificazione/riqualificazione e a piani di sviluppo professionale.
Il sistema formativo di un Paese dovrebbe trovare una coerenza complessiva, dal livello prescolare, a quello della primaria, della secondaria di primo e di secondo grado, sino all’istruzione terziaria accademica e non. Come è riconosciuto a livello internazionale, l’incidenza dell’educazione in età infantile ha una ripercussione significativa in tutti i gradi scolastici successivi, contribuendo in modo importante all’uguaglianza e all’inclusione e al superamento, almeno parziale, dei divari derivanti dall’ambiente socio-economico di appartenenza dei bambini e delle loro famiglie.
Anche l’occupazione e la sua qualità, come la stessa qualità dello sviluppo economico di un Paese è condizionata profondamente dall’intero assetto del sistema scolastico, dall’asilo-nido all’educazione ricorrente e continua degli adulti, e dai suoi risultati qualitativi e quantitativi nei termini di quanti giovani e con quali risultati e in quanti anni di studio pervengono a una qualifica, a un diploma, a una laurea.
I confronti internazionali, a partire dai famosi test Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment), finalizzati ad accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati nella lettura, nella matematica e nelle scienze, hanno spinto diversi Paesi (in primis la Germania), nel 2000, primo anno di pubblicazione dei risultati di confronto, rivelatisi inaspettatamente, per quei Paesi, molto più bassi di quanto si aspettassero, a intraprendere un’analisi più approfondita di confronto con i Paesi collocati ai primi posti nella graduatoria internazionale. La reazione, in altre parole, non è stata quella di colpevolizzare gli insegnanti o gli studenti o le famiglie o di tagliare i costi “considerato che a fronte di risultati così modesti tanto vale spendere meno”, come è successo da noi, bensì di verificare quali politiche e provvedimenti siano utilizzabili (tenuto conto delle differenze di contesto) tra quelle adottate dai Paesi meglio collocati nella graduatoria (come la Cina nelle regioni di Shanghai e di Hong-Kong, il Canada, la Finlandia, il Giappone, Singapore) o, nel 2009 (gli USA), in occasione dell’ultima rilevazione, per imparare da quelli che hanno realizzato significativi miglioramenti rispetto a nove anni prima (Germania, Polonia, Brasile). Questa analisi, condotta da un numeroso team di esperti, accademici, responsabili ministeriali a livello internazionale, ha prodotto lo studio “Strong Performers and Successful Reformers in Education. Lessons from PISA for the United States ” promosso dal Ministro dell’Istruzione del Governo federale degli USA Arne Duncan e dal Segretario Generale dell’OCSE Angel Gurria, pubblicato il 17 maggio 2011

La preoccupazione di Paesi come USA e Germania risiede nella consapevolezza che la leadership economica a livello internazionale non può coesistere con un sistema scolastico più scadente di quello di Paesi che a quella leadership contendono il primato. E che anche i posti di lavoro (per numero, qualità e livelli retributivi) sono legati alla qualità del sistema scolastico e sono sottoposti a un’inedita concorrenza internazionale. I confronti economici a livello internazionale, assai più che sui costi del lavoro, avvengono e avverranno sempre più sui vantaggi comparativi nelle conoscenze e nella qualità del fattore umano; la domanda di personale con basse professionalità è destinata a ridursi e già oggi si assiste, nei Paesi con livelli salariali alti, alla crescita della domanda più veloce rispetto all’offerta di persone con alti profili professionali.
Se ne deduce che se è utile puntare a migliorare gli standard nazionali del sistema dell’istruzione, ancora più lo è guardare a quelli dei Paesi con i migliori risultati a livello internazionale, con particolare riferimento ai parametri relativi alla partecipazione della popolazione ai processi educativi, alla qualità, alla equità, all’efficienza. Tutti i Paesi occidentali si devono oggi confrontare con una crescente disuguaglianza anche tra i giovani, in ragione del lungo periodo di liberismo reagan-thatcheriano, dei flussi migratori e dei cambiamenti economico-sociali. La scuola è il luogo ove almeno in parte le disuguaglianze possono essere corrette, attraverso una distribuzione delle risorse (economiche e umane) che privilegi le scuole frequentate da studenti svantaggiati, per consentire di avere in quelle scuole meno studenti per classe, gli insegnanti migliori, anche dal punto di vista delle capacità relazionali, strutture confortevoli, laboratori, aule e palestre di standard elevato, tempo-scuola sufficiente a dare un aiuto personalizzato agli studenti, personale in grado di presidiare dal punto di vista psicologico e sociale i problemi di apprendimento, relazionali, personali.

Di particolare interesse sono i rilievi dai quali risulta una correlazione positiva tra la dimensione dell’autonomia scolastica, dei docenti, del dirigente scolastico e i risultati formativi. Al contrario, non risulta alcuna correlazione positiva tra scuole o classi omogenee dal punto di vista socio-culturale e risultati scolastici, semmai il contrario. Si verifica infatti che quanto prima gli studenti debbono scegliere i percorsi di studio differenziati tanto più aumenta l’impatto del background socio-economico sui risultati: in altre parole quanto prima si abbandonano gli indirizzi comuni tanto più le ineguaglianze vengono rafforzate mentre gli studenti più svantaggiati vengono tendenzialmente instradati verso opportunità di apprendimento di qualità più bassa rispetto ai loro compagni meno svantaggiati.

La scuola che “orienta” o sposta studenti “difficili” verso scuole “più facili” ottiene apparentemente un vantaggio, ma ciò ha una ricaduta negativa per il sistema scolastico complessivo, anche a causa dell’approfondimento delle differenze tra le scuole. Inoltre ove ciò costituisce una politica sistematica, gli insegnanti di quella scuola disimparano (o non imparano) a gestire classi disomogenee, con ricadute negative nei processi di apprendimento di tutti gli allievi. Per questo motivo, al contrario di quanto avviene nelle nostre scuole, in Cina è ritenuto preferibile avere classi relativamente numerose per garantire la presenza di un ampio spettro di capacità degli studenti, poiché ciò consentirebbe agli insegnanti, che praticano una didattica basata sulle domande degli studenti, di migliorare il processo di apprendimento di tutta la classe.

In Germania negli anni 2003 e 2004 sono state realizzate diverse riforme, tra le quali la diffusione del tempo pieno, per il quale sono stati investiti quattro miliardi di euro, l’innalzamento degli standard educativi in tutti i Länder, l’incremento dell’autonomia delle scuole e dei docenti, l’aggiornamento dei docenti e il miglioramento del loro trattamento economico. Standard educativi nazionali sono stati definiti per l’ultimo anno delle elementari in matematica e in tedesco; per l’ultimo anno della secondaria di primo grado in matematica, tedesco, inglese o francese, biologia, chimica e fisica; per l’ultimo anno della secondaria di secondo grado nelle stesse materie e per la seconda lingua straniera. Particolare attenzione è stata posta al miglioramento della scuola dell’infanzia (i Kindergarten ideati all’inizio dell’800 da Friedrich Fröbel), garantita per legge a tutti i bambini per tre anni, come luogo educativo principe per lottare contro lo svantaggio economico-sociale e per garantire le premesse di pari opportunità nei gradi successivi della scuola e della vita, anche attraverso programmi di istruzione pre-elementari nel campo matematico, linguistico, della scrittura, della comunicazione, scienze naturali, arte e attraverso specifici corsi di tedesco finanziati per i bambini appartenenti a famiglie di lingua diversa, con l’obiettivo di garantire a tutti la stessa conoscenza linguistica al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Il tempo pieno è stato incentivato, anche finanziariamente, in ogni ordine di scuole. Per garantire un’alta qualità dei docenti vengono selezionati per i corsi universitari i giovani appartenenti al terzo superiore dei diplomati. Infine è stato istituito presso la Humboldt Universität di Berlino l’Istituto per il Progresso Educativo incaricato e finanziato per la dotazione delle infrastrutture e delle capacità scientifiche necessarie a supportare lo sviluppo degli standard, fornire le analisi, monitorare e diffondere i risultati.

In Germania il 60% dei giovani impara un mestiere all’interno del “Duales Ausbildungssystem” (sistema duale scuola e lavoro) di istruzione e formazione professionale, che fa riferimento a circa 350 qualifiche riconosciute a livello statale, a un periodo tra i due e i tre anni di scuola e lavoro, a un esame di stato finale (mentre il sistema della pubblica istruzione è governato e gestito dai Länder, del sistema duale scuola/lavoro si occupa il Ministero Federale dell’Istruzione e della Ricerca - il quale stabilisce altresì i requisiti che devono essere posseduti dai formatori aziendali - con la collaborazione dei dipartimenti economici dei Länder e delle Camere di Commercio locali).

E’ un sistema che viene periodicamente messo in discussione e che vede diverse criticità ma che merita di essere fatto oggetto di attenzione: si tratta di un sistema dinamico, anche nell’inserimento frequente di nuovi “profili professionali” che si aggiungono al repertorio o ne sostituiscono altri; ha una certa permeabilità con il resto del sistema dell’istruzione e consente (seppure non senza difficoltà) il passaggio agli altri canali dell’istruzione, compreso quello universitario. Insomma, nonostante l’età, continua a funzionare, anche grazie ai cambiamenti intercorsi e soprattutto all’interesse delle imprese. A differenze di ciò che è accaduto in gran parte degli altri Paesi europei, ove l’istruzione generale e le competenze di base hanno avuto la meglio per un periodo più lungo in tutti i percorsi di istruzione, in Germania il sistema duale ha incorporato anche questa esigenza.

Il sistema duale gioca dunque un ruolo fondamentale in Germania dal punto di vista del rapporto tra la scuola e l’occupazione. In tutto il mondo industrializzato ai giovani che lasciano la scuola e cercano un’occupazione sono richieste nuove abilità, tra le quali quelle di saper stabilire obiettivi di lavoro, saper creare un piano per raggiungerli, saper lavorare in modo rigoroso per realizzarli, saper essere un buon componente o un buon conduttore di un team, saper lavorare anche in modo indipendente, saper trarre tanto dalle esperienze che dalla teoria le soluzioni a una larga varietà di problemi concreti e attuali, avere doti analitiche e creative. Il sistema duale tedesco appare un efficiente canale in grado di fornire queste capacità. In altri Paesi questo modello è stato abbandonato, senza, tuttavia, aver trovato una soddisfacente alternativa, anche perché la scuola da sola difficilmente costituisce l’ambiente giusto per lo sviluppo di quelle capacità.

Ne sono convinte le parti sociali (imprenditori e sindacati), il cui coinvolgimento nel sistema duale in Germania aiuta ad assicurare che esso risponda alle esigenze del mercato del lavoro, che insegni effettivamente le abilità necessarie e conduca a trovare un’occupazione soddisfacente per qualità e retribuzione. La capacità della Germania, in questi anni di crisi, di tenere un buon tasso di occupazione e alti salari e di essere vincente nella critica congiuntura mondiale viene fatta risalire, almeno in parte, alla presenza del sistema duale di istruzione, forte dell’attrattività che esercita sui giovani e della solida integrazione tra scuola formale e apprendistato.


*Relazione svolta nell'ambito delle giornate di studio: “Ricostruzione. LA SCUOLA PRIORITA’ PER L’ITALIA”, promosse dal PD di Bologna.

Bologna, 19 dicembre 2011

"Fare insieme", per la scuola bolognese.

Davide Ferrari*

Il PD è con le scuole di Bologna, e sostiene l'impegno e le esperienze dei dirigenti e degli insegnanti, la volontà di partecipazione degli studenti e delle famiglie.
Per questo stiamo promuovendo un vasto ciclo di convegni dal titolo: "Ricostruzione. La scuola priorità per l’Italia" che è inizia oggi con l'incontro "La scuola e la città. Progettare nella crisi delle risorse"
Bisogna “FARE INSIEME”, fra gli enti locali e le scuole, che sono centrali nella vità delle comunità , e fra l'intervento pubblico ed i soggetti del privato sociale, dell'associazionismo e le imprese che agiscono nel mondo educativo.
Condividiamo molto che il Comune di Bologna si appresti a promuovere un vasto percorso di partecipazione. Si vuole condividere con i cittadini scelte innovative di governo, per le scuole, i servizi, come il Nido, ed i centri educativi, verificando con quali strumenti dare autonomia ed un saldo coordinamento pedagogico alle strutture comunali, come a Reggio e in altri Comuni si è fatto dando vita ad una specifica Istituzione.
Lo Stato deve fare di più, sia finanziando almeno una parte di quello che Bologna ed altri Comuni fanno, al suo posto, nel campo della scuola dell'infanzia, sia garantendo alle scuole primarie e secondarie organici certi, funzionali alle necessità educative e dirigenti scolastici stabili che possano assicurare piani dell'offerta pluriennali e verificabili, e siano un riferimento essenziale, nei territori, per le scelte gli Enti locali. L'incertezza nella presenza delle direzioni, nel personale docente ed amministrativo, nelle disponibilità finanziarie è il primo problema che chiediamo al nuovo Governo di affrontare.
E' la base per poter programmare l'uso migliore delle risorse, razionalizzare e coordinare tutti i soggetti pubblici e sociali che sono al lavoro, nelle e con le scuole. Se non si può avere di più, oggi, si deve però averlo “meglio” . La scuola è nel terremoto, come ci hanno testimoniato i tanti interventi , ma non rinuncia alla qualità, vuole essere difesa con il cambiamento, chiede certezza di risorse, pur nei limiti stretti del momento, e più autonomia per impiegarle al meglio.



*Abstract della relazione di D.Ferrari al Convegno: “La scuola e la città. Progettare nella crisi delle risorse”, promosso dal Forum scuola del PD, a Bologna il 21-12-2011

venerdì 30 settembre 2011

Scuole di Modena: quali politiche? Parla Querzè.

Intervista ad Adriana Querzè, assessore all’istruzione del Comune di Modena
di B. Q. Borghi

La città di Modena ha un passato importante in ambito educativo e le sue scuole dell’infanzia rappresentano, ancora oggi, un patrimonio senza dubbio interessante. I tempi tuttavia sono cambiati e le amministrazioni comunali si trovano a dover affrontare nuove sfide: perché continuate ad investire in questo settore?

Cominciamo con uno sguardo al passato. Le scuole materne statali nascono con la legge n. 444/1968 e vengono istituite in rapporto alle risorse disponibili e solo laddove non ne esistano altre, gestite da privati o da enti locali, che rispondano alle richieste delle famiglie.
Quindi, anche dopo l'istituzione delle scuole statali, hanno continuato ad essere presenti scuole di origine parrocchiale, comunale e gestite da enti e privati, affiancate dalle ultime nate, le statali, non a caso diffuse a macchia di leopardo. La maggiore diffusione della scuole materne statali si è quindi avuta nelle zone del Paese storicamente meno dotate di servizi per l'infanzia. Il pluralismo gestionale precede quindi la legge che istituisce le scuole materne statali e non ne è assolutamente scalfito, anzi viene in un certo senso sanzionato dall'attuazione della legge stessa.
E' evidente che la configurazione del sistema scolastico per l'infanzia e l'impegno in certo modo “residuale”dello Stato dovesse prima o poi cozzare contro le esigenze determinate dalle mutate condizioni lavorative delle donne e dalla consapevolezza diffusa della necessità che la “prima scuola” fosse frequentata da tutti i bambini e le bambine.
Oggi, finalmente, la scuola dell'infanzia è entrata a pieno titolo nel sistema nazionale di istruzione ed il dibattito di berlingueriana memoria tra obbligo e facoltatività della frequenza si è risolto, un po' all'italiana, col concetto della generalizzazione della scuola. Ciò nonostante però, lo Stato è ben lontano dall'onorare l'impegno che si è assunto di generalizzare la scuola per i bambini dai tre ai sei anni. Quello della generalizzazione è infatti un vero e proprio livello essenziale che non impegna le famiglie alla frequenza ma lo Stato all'offerta. Invece, contrariamente a questo, vediamo permanere, e qualche caso addirittura aumentare le liste d'attesa per i bambini di questa fascia d'età.
Noi crediamo che il diritto allo studio cominci a tre anni e che sia assolutamente opportuno mantenere almeno il livello di frequenza raccomandato dalla U.E.
Quindi, in presenza di un governo centrale che non assume la questione della generalizzazione della frequenza come il vero obiettivo di sviluppo quantitativo del primo segmento dell'istruzione, noi interveniamo.
E' questa è la fondamentale ragione del nostro impegno: non vogliamo liste d'attesa di bambini di tre anni perché la scuola è un diritto ed è tale solo se, a scuola, c'è posto per tutti.
Un'altra ragione è legata al fatto che, almeno nei nostri territori, l'ente locale ha saputo non solo gestire ma soprattutto elaborare, all'interno dei servizi educativi, una cultura dell'infanzia che ha fornito spunti importanti per la definizione delle politiche nazionali che non vogliamo vadano dispersi.

In che senso hanno dato spunti importanti?

A Modena le scuole dell'infanzia comunali sono nate con un’idea non assistenziale: si è sempre ragionato ed operato pensando a bambini competenti, titolari del diritto di apprendere nella comunità dei pari, del diritto al gioco, alla comunicazione, all'espressione. Questa impostazione si è concretizzata in una pratica educativa capace di “trarre le conseguenze” dalle teorizzazioni più avanzate, attraverso le ingenti risorse investite sulla formazione e sulla valorizzazione del personale. Inoltre l'attenzione ai saperi infantili si è coniugata con l'idea di una scuola pubblica che appartiene alla città che l'ha voluta e che sa porsi in una situazione di scambio col territorio. Da esso trae la linfa di esperienze e conoscenze informali sulle quali elaborare saperi; ad esso restituisce una cultura di infanzia che lo rende più coeso, solidale e attento alle esigenze di tutti.
Dagli anni Settanta abbiamo cercato di miscelare questi aspetti: saperi e linguaggi dei bambini, formazione professionale dei docenti, rapporto di qualità col territorio, cultura dell'infanzia per una città più consapevole. Molti di questi spunti sono stati utilizzati negli stessi Orientamenti del 1991, straordinario documento programmatico e civile della scuola dell'infanzia nazionale. E molti di questi spunti, partiti da Modena sono arrivati a Roma grazie a docenti universitari e insegnanti modenesi che hanno fatto parte della commissione che ha elaborato il testo e, soprattutto, grazie al contributo di Sergio Neri. Con l'emanazione degli Orientamenti del 1991, Modena, che ha sempre lavorato per avere una “buona scuola”, ha sentito di avere avuto ragione.

Quali devono essere le caratteristiche di una buona scuola?

Due: una scuola è buona se i genitori possono entrarvi con diritto di parola, perché educare e istruire è un impegno collettivo e né la scuola né la famiglia possono sortirne da sole.
Una scuola è buona se sa essere per i bambini. Non per il funzionamento dell’organizzazione, non per l'economia, non per la selezione dei “non adatti” ma per far crescere insieme i diversi, accogliere e “promuovere” tutti garantendo a ciascuno “avvertibili traguardi di sviluppo” come ci ricordano gli Orientamenti del 1991.

In che cosa consiste perciò l’eredità pedagogica dei primi anni settanta?

Consiste in alcune idee ancora molto attuali e non pienamente realizzate.
L’idea di bambino che apprende in certe condizioni che impongono l’attenzione al contesto, alla molteplicità delle sollecitazioni, alla differenza e pari dignità delle risposte, alla socialità. Elementi, questi, che hanno portato alla elaborazione del concetto di ambiente di apprendimento che comprende la dimensione fisica, relazionale, cognitiva, oggi anche tecnologica dei luoghi nei quali l'apprendimento avviene.
E, ancora, l'idea di bambino competente che comporta, da parte degli insegnanti, la capacità di elaborare una didattica che tenga continuamente d'occhio le teorie che il bambino elabora sulla realtà senza considerarle errori da correggere ma ipotesi da verificare. Si tratta quindi di una didattica capace di tenere aperte varie piste di lavoro, muoversi nell'incertezza, riconosce che, da sempre, la verità di oggi è l' errore di domani e che, a volte, uno sguardo dal basso intercetta cose che dall'alto sfuggono. Il tutto senza sentimentalismi, ma con la consapevolezza scientifica, che oggi abbiamo, di come funziona l'apprendimento significativo nella prima età della vita.
Penso che si possa parlare di un doppio contributo: una iniziale attenzione al bambino e alla famiglia e un grande slancio in avanti dal punto di vista dell’aggancio alle teorie, quindi uno sforzo costante di tenere insieme teoria e pratica.

Quali sono stati gli strumenti?

La scelta del comune di Modena è, ed è stata, quella di investire sulla formazione. Mi riferisco alla formazione come crescita professionale e personale. Non a caso Sergio Neri parlava, lanciando un'idea molto fertile ancora oggi, di “professionista colto”.
Se però esaminiamo la situazione complessiva della scuola pare di essersi incamminati nella direzione opposta. Si pensi ai contratti degli insegnanti statali che non prevedono ore di formazione, ma anche alla dimensione culturale della professione docente. L'insegnamento che per molto tempo è stata una professione ambita e riconosciuta socialmente, oggi rappresenta spesso una seconda scelta e l'insegnante sempre più raramente è percepito come un intellettuale. Avviene con sempre più frequenza che gli stessi genitori abbiano a disposizione strumenti cultuali più solidi e, se questo di per sé non è un male, segnala comunque una difficoltà nella qualificazione del personale. Si tratta di un discorso molto complesso, legato alla società che cambia, a una diversa idea di scuola, alla occupabilità e alla attrattività delle professioni che muta nel tempo.

Tutto questo riguarda le origini ed è indubbio che Modena poggi su buone radici. Forse c’è anche un po’ il rischio della mitizzazione. Adesso si tratta di riuscire a tenere nel cambiamento. Come si muove il comune di Modena?

Ora occorre assumere la sfida del cambiamento: dii quello interno e di quello esterno. Se cambia l’esterno della scuola, se cambiano la società, i bambini, le famiglie, gli insegnanti stessi non possiamo prendere aprioristicamente per buono l’assetto interno. E senza rinunciare ai principi fondanti che, a nostro parere, restano anche gli obiettivi da perseguire perché mai raggiunti una volta per tutte, abbiamo deciso di lavorare a fondo sul coordinamento pedagogico, cominciando a pensarlo nei fatti e non nelle enunciazioni, come coordinamento “zerosei”.
Riteniamo infatti che in questa fase di trasformazione occorra, da un lato, tenere fermi i principi di fondo di quella che viene considerata una buona scuola e, dall'altro, che le scuole siano accompagnate nella rielaborazione progettuale di quanto sta mutando in termini di nuove aspettative, nuove domande, nuovo ruolo e rappresentazione dei genitori, cambiamento delle famiglie, nuovi saperi, richiesta di nuove flessibilità organizzative.
Pensiamo che la figura del coordinatore pedagogico possa avere per questi obiettivi un ruolo veramente propulsivo..
In specifico, stiamo lavorando sulla formazione congiunta dei coordinatori di nido e di scuola dell'infanzia e sulla riflessione sul loro ruolo.
Il ruolo e l’agire dei coordinatori di nido e dei coordinatori d’infanzia sono diversi per storie e tradizioni. Ora abbiamo iniziato un percorso rispetto al quale i coordinatori confrontano le pratiche, si formano per trovare un linguaggio comune. Questo è il lavoro di questo anno scolastico, vale a dire, una riflessione articolata, che parta dal fare, su competenze, attribuzioni, compiti, modi di essere all’interno dei collettivi. È un lavoro di analisi che coinvolgerà successivamente anche gli educatori e gli insegnanti.
Il primo obiettivo è assegnare ai coordinatori nidi e scuole dell’infanzia. Si tratta di un passaggio che non si può fare da un giorno all’altro.

Quali sono le maggiori difficoltà e potenzialità di questa operazione?

Le sue potenzialità consistono nella possibilità di rispondere meglio e più coerentemente alle domande sociali che arrivano alla scuola. Una è proprio quella della continuità. E' una domanda dei genitori che arriva in forma per così dire ... matura, che non chiede un appiattimento omogeneizzante incapace di tener conto della crescita, dei cambiamenti, della disomogeneità, ma che chiede che ogni segmento educativo metta al centro i bambini interi, con la loro storia e le specificità che portano.
Si tratta dunque di costruire un’idea di bambino, famiglia, accoglienza, relazione e saperi effettivamente unitaria ed aperta non al nuovo che verrà ma quello che è già entrato nei nidi e nelle scuole dell'infanzia .
Ad esempio, se un educatore di nido, assume il tema dell’accoglienza e dello star bene come esclusivo, fa sicuramente un'azione positiva per il bambino. Tuttavia nel passaggio da tre mesi a tre anni, dal punto di vista cognitivo, accadono molte cose fondamentali e non sarebbe accettabile che un educatore di nido, centrato sul benessere, non avesse, ad esempio, conoscenze sullo sviluppo del linguaggio, tema più tipico della scuola dell'infanzia, perché certi passaggi avvengono proprio al nido, non successivamente.
Si potrebbero fare altri esempi sul versante degli insegnanti delle scuole dell'infanzia.
Ciò che mi preme sottolineare però è che, attraverso il lavoro di formazione dei coordinatori, stiamo cercando di porre le condizioni per valorizzare il meglio della cultura dei nidi e della cultura delle scuole dell'infanzia, puntando ad un risultato che non potrà che essere un arricchimento per tutti.
Ovviamente, il processo è graduale, perché occorre preparare le persone per questo tipo di lavoro che punta proprio alla contaminazione culturale positiva e creativa fra due mondi ancora troppo lontani.
Il rischio maggiore che vedo nell'operazione è quello della perdita della specificità dei segmenti del sistema educativo ma credo che saranno gli stessi operatori ad indicarci quanto va modificato e quanto va preservato. Penso inoltre che questo ed altri rischi saranno minimizzati dalla formazione, strumento indispensabile e sempre presente che occorrerà raffinare ancora di più ed utilizzare come leva vera per vincere questa nuova sfida professionale e culturale.

Occorre insomma puntare sulla continuità …

Sì. La difficoltà dei differenti gradi educativi (nido, infanzia, primaria) di comunicare e di fare continuità dipende da diversi elementi. Credo che uno dei più importanti sia la difficoltà per ciascun grado di riconoscere ed apprezzare i saperi specifici dell’altro. Il nostro sforzo si muove perciò nella direzione della costruzione della reciprocità, anche come riconoscimento dei saperi di ognuno che debbono entrare maggiormente in circolazione. E comunque molto è riconducibile alla formazione dei coordinatori pedagogici, del personale docente ed educativo.
In che cosa consiste il progetto di formazione di cui parlava prima?

Abbiamo cercato di coordinare la formazione degli educatori di nido e dei docenti di scuola dell'infanzia partendo da un’idea e da un dato.
L’idea , banale ma non certo scontata, è che la formazione in servizio si rivolge ad adulti già professionalizzati quindi non può né partire da zero, né ignorare le competenze pregresse o le preferenze e le caratteristiche individuali.
Il dato è che stiamo assistendo ad un forte turnover di educatori e insegnanti: un vero e proprio cambio generazionale. Questo ci ha posto nella condizione di dover immaginare una formazione utile per docenti con esperienza pluridecennale e docenti neo assunti.
Continuando a ritenere utile l’idea di professionista colto, pensiamo ad una formazione che travalichi il mondo prettamente scolastico e l’approccio esclusivamente pedagogico cercando di fornire stimoli per far sì che l’insegnante possa davvero sentirsi parte del mondo della cultura oltre che di quello della professione.
Le insegnanti che entrano nelle scuole dell'infanzia dopo il percorso universitario a volte sono molto disorientate dalla distanza tra la formazione teorica e la realtà. Crediamo di dover insistere quindi sui campi di esperienza intesi come dimensioni dello sviluppo, sistemi simbolico-culturali, lineamenti di metodo, esiti e percorsi. Questi infatti è uno dei tratti distintivi della scuola dell’infanzia in generale.
Il piano di formazione cerca di rispondere coerentemente ai requisiti descritti e si articola su diversi contenuti per la costruzione di diverse competenze.
Vengono attivati corsi condotti da esperti con metodologie tradizionali finalizzati alla riflessione su temi generali relativi al contesto ambientale e socio-culturale; corsi operativi per l'approccio alla didattica del fare, con metodologie laboratoriali nei quali gli insegnanti sperimentano direttamente tecniche da utilizzare in sezione; corsi teorico-pratici, condotti da insegnanti di grande esperienza, che affrontano aspetti di contenuto e organizzazione didattica che consentono di valorizzare le competenze del personale in servizio in un vero e proprio trasferimento di competenze che nella scuola solitamente non avviene.

Ormai gli enti locali che gestiscono scuole dell’infanzia sono sempre meno: perché il comune di Modena continua a sobbarcarsi questo onere?

La risposta è semplice: perché al centro delle politiche del comune ci sono i diritti delle persone e quello all'istruzione è un diritto inalienabile. Piuttosto occorre chiedersi come il comune può sostenere questo onere a fronte di riduzioni consistenti dei trasferimenti e di una sempre più accentuata complessità gestionale ed organizzativa.
Alla questione dei costi facciamo fronte con le scelte di bilancio (le risorse non sono carenti in assoluto ma anche in relazione alle scelte che si fanno), con scelte di politica tariffaria e di contrasto alla morosità, con la ricerca di un equilibrio tra le diverse forme di gestione delle scuole che hanno ovviamente diverse ricadute sulle casse comunali.
A quest'ultimo problema risponde il sistema misto-integrato.
Misto significa a gestione mista, composto cioè da scuole comunali 35%), convenzionate (12%), convenzionate FISM (35%) e statali (18%).
Integrato significa che abbiamo nel tempo costruito strumenti in grado di rendere omogenea rispetto ad alcuni criteri, l'offerta per i bambini modenesi.
Alcune azioni sono interessanti esempi di integrazione e governo del sistema.
La prima: esiste un centro unico di iscrizione per tutte le scuole dell'infanzia cittadine, gestito dal comune, che non solo raccoglie materialmente le iscrizioni ma definisce annualmente gli stessi criteri di accesso coinvolgendo i dirigenti scolastici che li deliberano nei rispettivi Consigli di Circolo, le circoscrizioni, le direzioni delle scuole convenzionate. Questo determina pari condizioni di accesso, evita le doppie iscrizioni, consente al comune di offrire posti non scelti ad eventuali bambini in lista d'attesa per scuole troppo richieste. Inoltre, proprio per mantenere il sistema in equilibrio, da alcuni anni i genitori possono scegliere un massimo di sei scuole due delle quali statali, due comunali e due convenzionate: accorgimento che si è rivelato strumento utile per ridurre il fenomeno dell'affollamento di stranieri nelle scuole statali.
La seconda: il comune, oltre ad investire sulla formazione per i propri docenti, si occupa anche di sostenere quella dei docenti delle scuole convenzionate: negli appalti, ad esempio, inseriamo una premialità relativa al monte ore di formazione garantito ai docenti; inoltre la formazione rivolta agli insegnanti comunali è aperta anche a quelli delle scuole convenzionate.
La terza: abbiamo istituito un ufficio qualità che lavora soprattutto con le scuole convenzionate, sulla base di due idee condivise: l’autonomia delle scuole paritarie non è in discussione; il comune ha il diritto / dovere di controllare quella parte di finanziamento che mette a disposizione delle scuole convenzionate perché si tratta di denaro pubblico. Sulla base di queste idee, ad esempio, è stato possibile introdurre l'effettuazione di controlli degli standard di funzionamento e di alcuni indicatori quali l’autenticità del progetto pedagogico.

Che cosa intende per autenticità?

Quanto viene scritto nel progetto pedagogico deve trovare un riscontro nel fare. Se nel progetto pedagogico c’è scritto che l’ambiente è l’elemento che sostiene il progetto, non possono esserci cartelloni confezionati esclusivamente dall’insegnante, mancanza di prodotti dei bambini, assenza di qualsiasi forma di documentazione.

Questo che cosa ha determinato?

Una apertura di dialogo dove , con molto rispetto e con tutta la calma che ci vuole in questi casi, si sono avviati alcuni percorsi virtuosi.
La costruzione di un rapporto via via sempre più costruttivo: i nostri controlli non sono certo finalizzati a sanzionare inadempienze, ma ad accompagnare la crescita pedagogica di tutto il sistema e a ricevere sollecitazioni dalle migliori esperienze. Ad esempio alcune grandi cooperative che gestiscono scuole convenzionate hanno maturato esperienze sulla qualità molto diverse da quelle attuate dal comune ma assolutamente interessanti: in un sistema che funziona tutti possono e debbono imparare da tutti.

Quindi, se dovesse sintetizzare le politiche del comune di Modena rispetto alle scuole dell'infanzia, cosa potrebbe indicare?

Innanzi tutto la scelta di non ridurre l'offerta di servizio in relazione alle diminuite risorse economiche.
In secondo luogo l'attenzione a tenere viva ed aggiornata la cultura dell'infanzia presente nei servizi come lascito del passato ma anche come dimensione costantemente rinnovata e rapportata alla contemporaneità.
Inoltre la manutenzione del sistema misto-integrato attraverso azioni concertate che ne ottimizzino i vantaggi in termini di accesso, qualità erogata, finalità condivise.
Infine la cura del personale docente che è la risorsa primaria della scuola, cura intesa come valorizzazione del personale stesso e formazione in servizio.