venerdì 30 dicembre 2011

La scuola per tutto l’arco della vita, per il lavoro e lo sviluppo sostenibile

Paolo Rebaudengo*

Nonostante il susseguirsi di riforme e innovazioni, il sistema educativo italiano non sembra riuscire a rispondere adeguatamente alle molteplici esigenze espresse dal tessuto sociale ed economico, faticando a conquistare quella posizione di centralità, vuoi in funzione dello sviluppo del Paese, vuoi per sostenere e aiutare i momenti di crisi, quale quello che stiamo attualmente vivendo (Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2011, parte seconda 2.3 - un sistemo formativo fuori centro)


Quale scuola vogliamo per questo Paese? Quale sistema educativo e formativo per i bambini, gli adolescenti, i ragazzi? Quale università e quale formazione professionale? Quale educazione e formazione continua?
Per quale lavoro, quale attività, quale vita, quale condizione umana, quale speranza di felicità, quale possibilità che ciascun bambino e ciascuna bambina possa diventare Presidente della Repubblica, come dice la voce fuori campo del documentario “Nessuno ci ascolta” prodotto dal Comune di Bologna sulla ricostruzione della città e della scuola nell’immediato ultimo dopoguerra?
Qualcuno saprebbe citare un Paese che abbia deciso di ridurre l’età minima per l’ingresso al lavoro? E’ successo in Italia con il Governo di centro-destra caduto nel novembre 2011, riducendola dai 16 anni (in alcuni Paesi europei è a 18) ai 15. E nello stesso provvedimento di legge del 19 ottobre 2010 si dice che la formazione prevista dai contratti di apprendistato può essere svolta interamente in azienda, mentre risulta che solo il 20% degli apprendisti partecipi a corsi formativi. Perché è stato fatto? Perché le imprese chiedono, senza trovarli, molti giovani? Assolutamente no, anzi la disoccupazione giovanile è drammaticamente alta, anche a Bologna. La ragione è più semplice e anche più penosa: tenere a scuola i ragazzi e le ragazze il meno possibile, specie se di famiglie povere, figli d’immigrati, di operai, di disoccupati. E così si stabilisce che il contratto di apprendistato possa assolvere all’obbligo scolastico sin dai 15 anni, cancellando l’innalzamento dell’età minima di accesso al lavoro a 16 anni fissata dal Governo Prodi con la Legge Finanziaria 2007 in relazione all’innalzamento dell’obbligo scolastico ad almeno 10 anni di frequenza.

L’iscrizione alla scuola secondaria di secondo grado è ormai generalizzata ma il tasso di diploma non supera il 75%, con molti abbandoni nel primo biennio (proprio quello sul quale abbiamo inutilmente e a lungo discusso sulla necessità di dargli unitarietà – se non unicità- proprio per contrastare questo fenomeno). E se il 65% dei diplomati si iscrive all’Università, poi una matricola ogni cinque non arriva alla laurea. Secondo l’ultima indagine Unioncamere sulla domanda di lavoro delle imprese private, per il 33% di assunzioni previste non è richiesta alcuna formazione specifica, preferendo guardare alle sole esperienze pregresse: a dimostrazione dell’arretratezza delle imprese e/o della scuola? (l’argomento meriterebbe un ampio approfondimento). Inoltre siamo tra i Paesi con il minor numero di laureati e, contemporaneamente, il Paese con il tasso più basso (il 76%) di occupazione per i laureati, mentre il loro tasso di disoccupazione è salito nel solo biennio di crisi 2007-2009 (che però perdura….) dall’11 al 16% (e al 18% per gli specialistici).
Una recente indagine dell’Istat segnala che quasi la metà dei laureati e dei diplomati al primo impiego sono sotto inquadrati: è semplicemente un fenomeno di “sfruttamento” da parte delle imprese oppure d’inizio della carriera molto al di sotto delle competenze anche per miopia e inerzia dell’organizzazione, oppure di divario tra titoli di studio e competenze necessarie o, infine, di un mix di queste cause?

Gli intenti del recente decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167 sull’apprendistato, che ha ricevuto plausi da destra e da sinistra, dai sindacati dei lavoratori e delle imprese, sono senz’altro positivi: attraverso di esso i giovani possono acquisire sul lavoro, dai 15 anni di età, qualifiche e diplomi professionali, lauree e perfino dottorati. Il nuovo apprendistato è “un contratto di lavoro a tempo indeterminato” – seppure preveda al suo termine la “libera recedibilità” – “finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani. Assume tre possibili tipologie:
a) apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale (15 – 25 anni, durata massima 3/4 anni);
  b) apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere (18 – 29 anni, durata massima 3 anni, 5 per il settore dell’artigianato). La formazione sarà definita dalla contrattazione collettiva e dovrà integrarsi con la formazione pubblica regionale, interna o esterna all’azienda, per un monte ore complessivo per tutto il triennio pari a 120 ore;
c)  apprendistato di alta formazione e ricerca (18 – 29 anni).1
Tutto ciò richiede che ogni impresa sia un’«impresa formativa» e ben sappiamo quanto ne siamo lontani: questa prospettiva potrebbe peraltro risultare interessante o potrebbe/potrà essere perseguita, all’interno di un sistema dell’istruzione e formazione professionale iniziale e continuo collegato organicamente con le imprese, per la pratica dell’alternanza scuola-lavoro, ove esse si qualifichino per svolgere sul serio l’azione formativa richiesta dal “nuovo” apprendistato e, forse, così, migliorare anche la propria organizzazione e aprirsi anche ai suggerimenti dei giovani, come succede in Germania. Tuttavia appare evidente il divario tra le esigenze di una transizione dalla scuola a un lavoro qualificato e ben retribuito (che richiederebbe una riqualificazione dell’intero sistema della scuola secondaria) e la norma sull’apprendistato, seppure sostenuta dalle intese con le Regioni e con le parti sociali (la sola segreteria confederale della Cgil, firmataria dell’intesa, esprime il dissenso per l’avvio dell’apprendistato già dai 15 anni di età e per il suo utilizzo anche per la riqualificazione dei lavoratori in mobilità), specialmente se consideriamo i dibattiti, le ricerche, le iniziative e gli investimenti adottati in tanti altri Paesi in Europa, in Asia, in America in questo campo.

Dopo la riforma Moratti, il Ministero Fioroni, la riforma Gelmini, coesistono le norme su obbligo scolastico e obbligo formativo, diritto-dovere, obbligo di istruzione, mentre è avvenuto l’innalzamento (col centro-sinistra) e la riduzione (col centro-destra) degli anni effettivi di scuola obbligatoria. La prudenza (e le difficoltà di bilancio, già allora) del centro sinistra aveva portato a dieci anni di scuola (minimo) per garantire a tutti un diploma o almeno una qualifica, quando ne servivano undici per arrivare almeno alla qualifica, così che (forse) è stato più facile per il centro-destra tornare indietro sino alla sola terza media. Ed è stato lasciato il segmento dell’istruzione professionale nel doppio girone infernale, quello di serie B, nei corsi statali, e quello di serie C nei corsi regionali, salvo le iniziative regionali sulla formazione superiore post-diploma non accademica, unica vera innovazione positivo dell’intero sistema, che, sia pure giunta (non certo per colpa delle Regioni) con tanti anni di ritardo, consente di guardare con maggiore speranza al futuro della f.p. quantunque affrontata dal tetto anziché dalle fondamenta.

E sulle due culture del nostro sistema educativo non sono stati fatti molti passi avanti. Dice Luigi Berlinguer: “Il lavoro ed il sapere sono due facce della stessa medaglia: sono la fonte produttiva per eccellenza. Non c’è vera libertà ed effettiva uguaglianza, oggi, senza sapere, senza una sua ampia diffusione ed affermazione. Una società equa e inclusiva, una democrazia matura ed evoluta, rispettosa della persona, delle sue vocazioni, della sfera dei suoi diritti è oggi possibile soltanto se si garantisce il più ampio accesso al sapere. La nuova scuola deve dare sapere, utilità, competenze. Essa deve dare di più di quello che chiede il mercato del lavoro, mirare costantemente ad allargare l’offerta formativa. La nuova scuola è la casa dell’utile e del bello, della responsabilità sociale e della creatività. L’alunno deve sentire che è la sua casa, aperta tutto il giorno, tutto l’anno, tutta la vita. E per farla sentire veramente come propria, occorre che la nuova scuola sia strutturata su basi nuove, su spazi aperti, che creino anche fisicamente il senso di una comunità di apprendimento, e che si svolga con tempi flessibili, lunghi, articolati”.

Si parla spesso di competitività a livello del Paese, per dire che l’Italia lo è sempre meno. Ma cosa sia, se e come si misuri resta nel vago. Recentemente la Commissione europea, con un Report che individua un “indice di competitività regionale”, ha misurato il livello delle 268 regioni dell’UE, attraverso indicatori per ciascuno di undici “pilastri” fondamentali, tra i quali di grande importanza tre che riguardano la qualità della scuola primaria e secondaria, la qualità di quella universitaria e della formazione continua, l’efficienza del MdL.
La competitività territoriale è la capacità dell’economia e del sistema sociale di quel territorio di attirare e tenere nel tempo imprese con una fetta di mercato stabile o crescente e contemporaneamente produttrici di standard di vita stabili o in crescita per le persone che vi prendono parte, il tasso di occupazione in settori come quelli delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, gli investimenti diretti dall’estero che contribuiscono a rafforzare il capitale e la dotazione tecnologica e il numero delle imprese, dell’interconnessione tra imprese e fornitori, la concentrazione di risorse umane specializzate in settori ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia.

La formazione continua costituisce un indicatore significativo per le economie regionali più avanzate, poiché mentre la globalizzazione annulla le forme tradizionali di vantaggio competitivo, divengono sempre più importanti le caratteristiche culturali del territorio ove sono localizzate le imprese. L’Italia è tra i Paesi europei con il maggior divario tra le proprie regioni. Ecco perché scuola e mezzogiorno restano due questioni nazionali centrali e prioritarie.

La nostra regione è forse quella che ha pagato il prezzo più alto della scellerata politica del governo Berlusconi-Tremonti, specie per la scuola, l’Università, la ricerca e la cultura, la cui strozzatura, insieme alle inefficienze del sistema giudiziario e all’alto livello della corruzione ha costituito il più grave impedimento allo sviluppo delle nostre potenzialità, facendoci fare passi indietro nel cammino dello sviluppo economico e sociale.
A livello internazionale è segnalata l’arretratezza del nostro Paese, anche nelle regioni più sviluppate, nel campo dell’educazione degli adulti, della formazione continua e ricorrente. Più in generale, l’abissale distanza tra il sistema “vocational” (di formazione professionale) italiano e quelli degli altri Paesi industriali non è colmabile senza un cambiamento radicale dell’ordinamento, un superamento delle “due culture” e della separazione tra lavoro manuale e intellettuale, il riconoscimento che non c’è produzione materiale senza contenuti culturali, la valorizzazione della scienza, della tecnica e della tecnologia in tutti gli indirizzi di studio, liceali, tecnici e professionali, la valorizzazione del lavoro.
Gli ITS dovranno essere sviluppati: ciò richiede che nelle Fondazioni di Partecipazione che danno vita agli ITS aderisca un maggior numero di imprese (di tutto il territorio regionale e/o di dimensione nazionale o internazionale), di elevata qualità tecnologica e attive nella ricerca e sviluppo e con potenziali sufficienti a far prevedere l’assorbimento dei diplomati; esse dovranno costituire un positivo e valido ambiente formativo grazie all’impegno di tutor appositamente formati, tecnici e dirigenti, a un’alta qualità dell’organizzazione, a una cultura industriale e tecnologica diffusa, alla formalizzazione delle procedure, alla qualità e quantità di investimenti nello sviluppo del personale e nella sua formazione e aggiornamento continuo, ai rapporti internazionali; esse dovranno essere disponibili a condividere con le altre imprese la formazione dei giovani, in accordo e coordinamento con l’ITS e con i soggetti partner universitari; l’ITS, insieme ai Dipartimenti universitari, dovrà svolgere un’efficace azione di orientamento dei candidati all’iscrizione e dei diplomandi; dovrà essere definito un curriculum di studio nettamente alternativo a quello della laurea triennale; una parte significativa dei docenti dovrà essere costituita da visiting professor provenienti da analoghe istituzioni estere di alto livello; il numero degli ITS si dovrà espandere sino a coprire le esigenze di formazione superiore professionalizzante non accademica in tutti i settori economici.
Occupazione e sviluppo economico e sociale del territorio sono significativamente legate alla qualità del sistema educativo e della formazione professionale iniziale e continua e al numero di giovani in possesso di almeno un diploma o una qualifica. Non c’è settore economico, in agricoltura, nell’industria, nei servizi, nel settore privato, pubblico o cooperativo, i cui addetti non abbiano l’esigenza di partecipare periodicamente ad attività formative di qualificazione/riqualificazione e a piani di sviluppo professionale.
Il sistema formativo di un Paese dovrebbe trovare una coerenza complessiva, dal livello prescolare, a quello della primaria, della secondaria di primo e di secondo grado, sino all’istruzione terziaria accademica e non. Come è riconosciuto a livello internazionale, l’incidenza dell’educazione in età infantile ha una ripercussione significativa in tutti i gradi scolastici successivi, contribuendo in modo importante all’uguaglianza e all’inclusione e al superamento, almeno parziale, dei divari derivanti dall’ambiente socio-economico di appartenenza dei bambini e delle loro famiglie.
Anche l’occupazione e la sua qualità, come la stessa qualità dello sviluppo economico di un Paese è condizionata profondamente dall’intero assetto del sistema scolastico, dall’asilo-nido all’educazione ricorrente e continua degli adulti, e dai suoi risultati qualitativi e quantitativi nei termini di quanti giovani e con quali risultati e in quanti anni di studio pervengono a una qualifica, a un diploma, a una laurea.
I confronti internazionali, a partire dai famosi test Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment), finalizzati ad accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati nella lettura, nella matematica e nelle scienze, hanno spinto diversi Paesi (in primis la Germania), nel 2000, primo anno di pubblicazione dei risultati di confronto, rivelatisi inaspettatamente, per quei Paesi, molto più bassi di quanto si aspettassero, a intraprendere un’analisi più approfondita di confronto con i Paesi collocati ai primi posti nella graduatoria internazionale. La reazione, in altre parole, non è stata quella di colpevolizzare gli insegnanti o gli studenti o le famiglie o di tagliare i costi “considerato che a fronte di risultati così modesti tanto vale spendere meno”, come è successo da noi, bensì di verificare quali politiche e provvedimenti siano utilizzabili (tenuto conto delle differenze di contesto) tra quelle adottate dai Paesi meglio collocati nella graduatoria (come la Cina nelle regioni di Shanghai e di Hong-Kong, il Canada, la Finlandia, il Giappone, Singapore) o, nel 2009 (gli USA), in occasione dell’ultima rilevazione, per imparare da quelli che hanno realizzato significativi miglioramenti rispetto a nove anni prima (Germania, Polonia, Brasile). Questa analisi, condotta da un numeroso team di esperti, accademici, responsabili ministeriali a livello internazionale, ha prodotto lo studio “Strong Performers and Successful Reformers in Education. Lessons from PISA for the United States ” promosso dal Ministro dell’Istruzione del Governo federale degli USA Arne Duncan e dal Segretario Generale dell’OCSE Angel Gurria, pubblicato il 17 maggio 2011

La preoccupazione di Paesi come USA e Germania risiede nella consapevolezza che la leadership economica a livello internazionale non può coesistere con un sistema scolastico più scadente di quello di Paesi che a quella leadership contendono il primato. E che anche i posti di lavoro (per numero, qualità e livelli retributivi) sono legati alla qualità del sistema scolastico e sono sottoposti a un’inedita concorrenza internazionale. I confronti economici a livello internazionale, assai più che sui costi del lavoro, avvengono e avverranno sempre più sui vantaggi comparativi nelle conoscenze e nella qualità del fattore umano; la domanda di personale con basse professionalità è destinata a ridursi e già oggi si assiste, nei Paesi con livelli salariali alti, alla crescita della domanda più veloce rispetto all’offerta di persone con alti profili professionali.
Se ne deduce che se è utile puntare a migliorare gli standard nazionali del sistema dell’istruzione, ancora più lo è guardare a quelli dei Paesi con i migliori risultati a livello internazionale, con particolare riferimento ai parametri relativi alla partecipazione della popolazione ai processi educativi, alla qualità, alla equità, all’efficienza. Tutti i Paesi occidentali si devono oggi confrontare con una crescente disuguaglianza anche tra i giovani, in ragione del lungo periodo di liberismo reagan-thatcheriano, dei flussi migratori e dei cambiamenti economico-sociali. La scuola è il luogo ove almeno in parte le disuguaglianze possono essere corrette, attraverso una distribuzione delle risorse (economiche e umane) che privilegi le scuole frequentate da studenti svantaggiati, per consentire di avere in quelle scuole meno studenti per classe, gli insegnanti migliori, anche dal punto di vista delle capacità relazionali, strutture confortevoli, laboratori, aule e palestre di standard elevato, tempo-scuola sufficiente a dare un aiuto personalizzato agli studenti, personale in grado di presidiare dal punto di vista psicologico e sociale i problemi di apprendimento, relazionali, personali.

Di particolare interesse sono i rilievi dai quali risulta una correlazione positiva tra la dimensione dell’autonomia scolastica, dei docenti, del dirigente scolastico e i risultati formativi. Al contrario, non risulta alcuna correlazione positiva tra scuole o classi omogenee dal punto di vista socio-culturale e risultati scolastici, semmai il contrario. Si verifica infatti che quanto prima gli studenti debbono scegliere i percorsi di studio differenziati tanto più aumenta l’impatto del background socio-economico sui risultati: in altre parole quanto prima si abbandonano gli indirizzi comuni tanto più le ineguaglianze vengono rafforzate mentre gli studenti più svantaggiati vengono tendenzialmente instradati verso opportunità di apprendimento di qualità più bassa rispetto ai loro compagni meno svantaggiati.

La scuola che “orienta” o sposta studenti “difficili” verso scuole “più facili” ottiene apparentemente un vantaggio, ma ciò ha una ricaduta negativa per il sistema scolastico complessivo, anche a causa dell’approfondimento delle differenze tra le scuole. Inoltre ove ciò costituisce una politica sistematica, gli insegnanti di quella scuola disimparano (o non imparano) a gestire classi disomogenee, con ricadute negative nei processi di apprendimento di tutti gli allievi. Per questo motivo, al contrario di quanto avviene nelle nostre scuole, in Cina è ritenuto preferibile avere classi relativamente numerose per garantire la presenza di un ampio spettro di capacità degli studenti, poiché ciò consentirebbe agli insegnanti, che praticano una didattica basata sulle domande degli studenti, di migliorare il processo di apprendimento di tutta la classe.

In Germania negli anni 2003 e 2004 sono state realizzate diverse riforme, tra le quali la diffusione del tempo pieno, per il quale sono stati investiti quattro miliardi di euro, l’innalzamento degli standard educativi in tutti i Länder, l’incremento dell’autonomia delle scuole e dei docenti, l’aggiornamento dei docenti e il miglioramento del loro trattamento economico. Standard educativi nazionali sono stati definiti per l’ultimo anno delle elementari in matematica e in tedesco; per l’ultimo anno della secondaria di primo grado in matematica, tedesco, inglese o francese, biologia, chimica e fisica; per l’ultimo anno della secondaria di secondo grado nelle stesse materie e per la seconda lingua straniera. Particolare attenzione è stata posta al miglioramento della scuola dell’infanzia (i Kindergarten ideati all’inizio dell’800 da Friedrich Fröbel), garantita per legge a tutti i bambini per tre anni, come luogo educativo principe per lottare contro lo svantaggio economico-sociale e per garantire le premesse di pari opportunità nei gradi successivi della scuola e della vita, anche attraverso programmi di istruzione pre-elementari nel campo matematico, linguistico, della scrittura, della comunicazione, scienze naturali, arte e attraverso specifici corsi di tedesco finanziati per i bambini appartenenti a famiglie di lingua diversa, con l’obiettivo di garantire a tutti la stessa conoscenza linguistica al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Il tempo pieno è stato incentivato, anche finanziariamente, in ogni ordine di scuole. Per garantire un’alta qualità dei docenti vengono selezionati per i corsi universitari i giovani appartenenti al terzo superiore dei diplomati. Infine è stato istituito presso la Humboldt Universität di Berlino l’Istituto per il Progresso Educativo incaricato e finanziato per la dotazione delle infrastrutture e delle capacità scientifiche necessarie a supportare lo sviluppo degli standard, fornire le analisi, monitorare e diffondere i risultati.

In Germania il 60% dei giovani impara un mestiere all’interno del “Duales Ausbildungssystem” (sistema duale scuola e lavoro) di istruzione e formazione professionale, che fa riferimento a circa 350 qualifiche riconosciute a livello statale, a un periodo tra i due e i tre anni di scuola e lavoro, a un esame di stato finale (mentre il sistema della pubblica istruzione è governato e gestito dai Länder, del sistema duale scuola/lavoro si occupa il Ministero Federale dell’Istruzione e della Ricerca - il quale stabilisce altresì i requisiti che devono essere posseduti dai formatori aziendali - con la collaborazione dei dipartimenti economici dei Länder e delle Camere di Commercio locali).

E’ un sistema che viene periodicamente messo in discussione e che vede diverse criticità ma che merita di essere fatto oggetto di attenzione: si tratta di un sistema dinamico, anche nell’inserimento frequente di nuovi “profili professionali” che si aggiungono al repertorio o ne sostituiscono altri; ha una certa permeabilità con il resto del sistema dell’istruzione e consente (seppure non senza difficoltà) il passaggio agli altri canali dell’istruzione, compreso quello universitario. Insomma, nonostante l’età, continua a funzionare, anche grazie ai cambiamenti intercorsi e soprattutto all’interesse delle imprese. A differenze di ciò che è accaduto in gran parte degli altri Paesi europei, ove l’istruzione generale e le competenze di base hanno avuto la meglio per un periodo più lungo in tutti i percorsi di istruzione, in Germania il sistema duale ha incorporato anche questa esigenza.

Il sistema duale gioca dunque un ruolo fondamentale in Germania dal punto di vista del rapporto tra la scuola e l’occupazione. In tutto il mondo industrializzato ai giovani che lasciano la scuola e cercano un’occupazione sono richieste nuove abilità, tra le quali quelle di saper stabilire obiettivi di lavoro, saper creare un piano per raggiungerli, saper lavorare in modo rigoroso per realizzarli, saper essere un buon componente o un buon conduttore di un team, saper lavorare anche in modo indipendente, saper trarre tanto dalle esperienze che dalla teoria le soluzioni a una larga varietà di problemi concreti e attuali, avere doti analitiche e creative. Il sistema duale tedesco appare un efficiente canale in grado di fornire queste capacità. In altri Paesi questo modello è stato abbandonato, senza, tuttavia, aver trovato una soddisfacente alternativa, anche perché la scuola da sola difficilmente costituisce l’ambiente giusto per lo sviluppo di quelle capacità.

Ne sono convinte le parti sociali (imprenditori e sindacati), il cui coinvolgimento nel sistema duale in Germania aiuta ad assicurare che esso risponda alle esigenze del mercato del lavoro, che insegni effettivamente le abilità necessarie e conduca a trovare un’occupazione soddisfacente per qualità e retribuzione. La capacità della Germania, in questi anni di crisi, di tenere un buon tasso di occupazione e alti salari e di essere vincente nella critica congiuntura mondiale viene fatta risalire, almeno in parte, alla presenza del sistema duale di istruzione, forte dell’attrattività che esercita sui giovani e della solida integrazione tra scuola formale e apprendistato.


*Relazione svolta nell'ambito delle giornate di studio: “Ricostruzione. LA SCUOLA PRIORITA’ PER L’ITALIA”, promosse dal PD di Bologna.

Bologna, 19 dicembre 2011