venerdì 30 settembre 2011

Scuole di Modena: quali politiche? Parla Querzè.

Intervista ad Adriana Querzè, assessore all’istruzione del Comune di Modena
di B. Q. Borghi

La città di Modena ha un passato importante in ambito educativo e le sue scuole dell’infanzia rappresentano, ancora oggi, un patrimonio senza dubbio interessante. I tempi tuttavia sono cambiati e le amministrazioni comunali si trovano a dover affrontare nuove sfide: perché continuate ad investire in questo settore?

Cominciamo con uno sguardo al passato. Le scuole materne statali nascono con la legge n. 444/1968 e vengono istituite in rapporto alle risorse disponibili e solo laddove non ne esistano altre, gestite da privati o da enti locali, che rispondano alle richieste delle famiglie.
Quindi, anche dopo l'istituzione delle scuole statali, hanno continuato ad essere presenti scuole di origine parrocchiale, comunale e gestite da enti e privati, affiancate dalle ultime nate, le statali, non a caso diffuse a macchia di leopardo. La maggiore diffusione della scuole materne statali si è quindi avuta nelle zone del Paese storicamente meno dotate di servizi per l'infanzia. Il pluralismo gestionale precede quindi la legge che istituisce le scuole materne statali e non ne è assolutamente scalfito, anzi viene in un certo senso sanzionato dall'attuazione della legge stessa.
E' evidente che la configurazione del sistema scolastico per l'infanzia e l'impegno in certo modo “residuale”dello Stato dovesse prima o poi cozzare contro le esigenze determinate dalle mutate condizioni lavorative delle donne e dalla consapevolezza diffusa della necessità che la “prima scuola” fosse frequentata da tutti i bambini e le bambine.
Oggi, finalmente, la scuola dell'infanzia è entrata a pieno titolo nel sistema nazionale di istruzione ed il dibattito di berlingueriana memoria tra obbligo e facoltatività della frequenza si è risolto, un po' all'italiana, col concetto della generalizzazione della scuola. Ciò nonostante però, lo Stato è ben lontano dall'onorare l'impegno che si è assunto di generalizzare la scuola per i bambini dai tre ai sei anni. Quello della generalizzazione è infatti un vero e proprio livello essenziale che non impegna le famiglie alla frequenza ma lo Stato all'offerta. Invece, contrariamente a questo, vediamo permanere, e qualche caso addirittura aumentare le liste d'attesa per i bambini di questa fascia d'età.
Noi crediamo che il diritto allo studio cominci a tre anni e che sia assolutamente opportuno mantenere almeno il livello di frequenza raccomandato dalla U.E.
Quindi, in presenza di un governo centrale che non assume la questione della generalizzazione della frequenza come il vero obiettivo di sviluppo quantitativo del primo segmento dell'istruzione, noi interveniamo.
E' questa è la fondamentale ragione del nostro impegno: non vogliamo liste d'attesa di bambini di tre anni perché la scuola è un diritto ed è tale solo se, a scuola, c'è posto per tutti.
Un'altra ragione è legata al fatto che, almeno nei nostri territori, l'ente locale ha saputo non solo gestire ma soprattutto elaborare, all'interno dei servizi educativi, una cultura dell'infanzia che ha fornito spunti importanti per la definizione delle politiche nazionali che non vogliamo vadano dispersi.

In che senso hanno dato spunti importanti?

A Modena le scuole dell'infanzia comunali sono nate con un’idea non assistenziale: si è sempre ragionato ed operato pensando a bambini competenti, titolari del diritto di apprendere nella comunità dei pari, del diritto al gioco, alla comunicazione, all'espressione. Questa impostazione si è concretizzata in una pratica educativa capace di “trarre le conseguenze” dalle teorizzazioni più avanzate, attraverso le ingenti risorse investite sulla formazione e sulla valorizzazione del personale. Inoltre l'attenzione ai saperi infantili si è coniugata con l'idea di una scuola pubblica che appartiene alla città che l'ha voluta e che sa porsi in una situazione di scambio col territorio. Da esso trae la linfa di esperienze e conoscenze informali sulle quali elaborare saperi; ad esso restituisce una cultura di infanzia che lo rende più coeso, solidale e attento alle esigenze di tutti.
Dagli anni Settanta abbiamo cercato di miscelare questi aspetti: saperi e linguaggi dei bambini, formazione professionale dei docenti, rapporto di qualità col territorio, cultura dell'infanzia per una città più consapevole. Molti di questi spunti sono stati utilizzati negli stessi Orientamenti del 1991, straordinario documento programmatico e civile della scuola dell'infanzia nazionale. E molti di questi spunti, partiti da Modena sono arrivati a Roma grazie a docenti universitari e insegnanti modenesi che hanno fatto parte della commissione che ha elaborato il testo e, soprattutto, grazie al contributo di Sergio Neri. Con l'emanazione degli Orientamenti del 1991, Modena, che ha sempre lavorato per avere una “buona scuola”, ha sentito di avere avuto ragione.

Quali devono essere le caratteristiche di una buona scuola?

Due: una scuola è buona se i genitori possono entrarvi con diritto di parola, perché educare e istruire è un impegno collettivo e né la scuola né la famiglia possono sortirne da sole.
Una scuola è buona se sa essere per i bambini. Non per il funzionamento dell’organizzazione, non per l'economia, non per la selezione dei “non adatti” ma per far crescere insieme i diversi, accogliere e “promuovere” tutti garantendo a ciascuno “avvertibili traguardi di sviluppo” come ci ricordano gli Orientamenti del 1991.

In che cosa consiste perciò l’eredità pedagogica dei primi anni settanta?

Consiste in alcune idee ancora molto attuali e non pienamente realizzate.
L’idea di bambino che apprende in certe condizioni che impongono l’attenzione al contesto, alla molteplicità delle sollecitazioni, alla differenza e pari dignità delle risposte, alla socialità. Elementi, questi, che hanno portato alla elaborazione del concetto di ambiente di apprendimento che comprende la dimensione fisica, relazionale, cognitiva, oggi anche tecnologica dei luoghi nei quali l'apprendimento avviene.
E, ancora, l'idea di bambino competente che comporta, da parte degli insegnanti, la capacità di elaborare una didattica che tenga continuamente d'occhio le teorie che il bambino elabora sulla realtà senza considerarle errori da correggere ma ipotesi da verificare. Si tratta quindi di una didattica capace di tenere aperte varie piste di lavoro, muoversi nell'incertezza, riconosce che, da sempre, la verità di oggi è l' errore di domani e che, a volte, uno sguardo dal basso intercetta cose che dall'alto sfuggono. Il tutto senza sentimentalismi, ma con la consapevolezza scientifica, che oggi abbiamo, di come funziona l'apprendimento significativo nella prima età della vita.
Penso che si possa parlare di un doppio contributo: una iniziale attenzione al bambino e alla famiglia e un grande slancio in avanti dal punto di vista dell’aggancio alle teorie, quindi uno sforzo costante di tenere insieme teoria e pratica.

Quali sono stati gli strumenti?

La scelta del comune di Modena è, ed è stata, quella di investire sulla formazione. Mi riferisco alla formazione come crescita professionale e personale. Non a caso Sergio Neri parlava, lanciando un'idea molto fertile ancora oggi, di “professionista colto”.
Se però esaminiamo la situazione complessiva della scuola pare di essersi incamminati nella direzione opposta. Si pensi ai contratti degli insegnanti statali che non prevedono ore di formazione, ma anche alla dimensione culturale della professione docente. L'insegnamento che per molto tempo è stata una professione ambita e riconosciuta socialmente, oggi rappresenta spesso una seconda scelta e l'insegnante sempre più raramente è percepito come un intellettuale. Avviene con sempre più frequenza che gli stessi genitori abbiano a disposizione strumenti cultuali più solidi e, se questo di per sé non è un male, segnala comunque una difficoltà nella qualificazione del personale. Si tratta di un discorso molto complesso, legato alla società che cambia, a una diversa idea di scuola, alla occupabilità e alla attrattività delle professioni che muta nel tempo.

Tutto questo riguarda le origini ed è indubbio che Modena poggi su buone radici. Forse c’è anche un po’ il rischio della mitizzazione. Adesso si tratta di riuscire a tenere nel cambiamento. Come si muove il comune di Modena?

Ora occorre assumere la sfida del cambiamento: dii quello interno e di quello esterno. Se cambia l’esterno della scuola, se cambiano la società, i bambini, le famiglie, gli insegnanti stessi non possiamo prendere aprioristicamente per buono l’assetto interno. E senza rinunciare ai principi fondanti che, a nostro parere, restano anche gli obiettivi da perseguire perché mai raggiunti una volta per tutte, abbiamo deciso di lavorare a fondo sul coordinamento pedagogico, cominciando a pensarlo nei fatti e non nelle enunciazioni, come coordinamento “zerosei”.
Riteniamo infatti che in questa fase di trasformazione occorra, da un lato, tenere fermi i principi di fondo di quella che viene considerata una buona scuola e, dall'altro, che le scuole siano accompagnate nella rielaborazione progettuale di quanto sta mutando in termini di nuove aspettative, nuove domande, nuovo ruolo e rappresentazione dei genitori, cambiamento delle famiglie, nuovi saperi, richiesta di nuove flessibilità organizzative.
Pensiamo che la figura del coordinatore pedagogico possa avere per questi obiettivi un ruolo veramente propulsivo..
In specifico, stiamo lavorando sulla formazione congiunta dei coordinatori di nido e di scuola dell'infanzia e sulla riflessione sul loro ruolo.
Il ruolo e l’agire dei coordinatori di nido e dei coordinatori d’infanzia sono diversi per storie e tradizioni. Ora abbiamo iniziato un percorso rispetto al quale i coordinatori confrontano le pratiche, si formano per trovare un linguaggio comune. Questo è il lavoro di questo anno scolastico, vale a dire, una riflessione articolata, che parta dal fare, su competenze, attribuzioni, compiti, modi di essere all’interno dei collettivi. È un lavoro di analisi che coinvolgerà successivamente anche gli educatori e gli insegnanti.
Il primo obiettivo è assegnare ai coordinatori nidi e scuole dell’infanzia. Si tratta di un passaggio che non si può fare da un giorno all’altro.

Quali sono le maggiori difficoltà e potenzialità di questa operazione?

Le sue potenzialità consistono nella possibilità di rispondere meglio e più coerentemente alle domande sociali che arrivano alla scuola. Una è proprio quella della continuità. E' una domanda dei genitori che arriva in forma per così dire ... matura, che non chiede un appiattimento omogeneizzante incapace di tener conto della crescita, dei cambiamenti, della disomogeneità, ma che chiede che ogni segmento educativo metta al centro i bambini interi, con la loro storia e le specificità che portano.
Si tratta dunque di costruire un’idea di bambino, famiglia, accoglienza, relazione e saperi effettivamente unitaria ed aperta non al nuovo che verrà ma quello che è già entrato nei nidi e nelle scuole dell'infanzia .
Ad esempio, se un educatore di nido, assume il tema dell’accoglienza e dello star bene come esclusivo, fa sicuramente un'azione positiva per il bambino. Tuttavia nel passaggio da tre mesi a tre anni, dal punto di vista cognitivo, accadono molte cose fondamentali e non sarebbe accettabile che un educatore di nido, centrato sul benessere, non avesse, ad esempio, conoscenze sullo sviluppo del linguaggio, tema più tipico della scuola dell'infanzia, perché certi passaggi avvengono proprio al nido, non successivamente.
Si potrebbero fare altri esempi sul versante degli insegnanti delle scuole dell'infanzia.
Ciò che mi preme sottolineare però è che, attraverso il lavoro di formazione dei coordinatori, stiamo cercando di porre le condizioni per valorizzare il meglio della cultura dei nidi e della cultura delle scuole dell'infanzia, puntando ad un risultato che non potrà che essere un arricchimento per tutti.
Ovviamente, il processo è graduale, perché occorre preparare le persone per questo tipo di lavoro che punta proprio alla contaminazione culturale positiva e creativa fra due mondi ancora troppo lontani.
Il rischio maggiore che vedo nell'operazione è quello della perdita della specificità dei segmenti del sistema educativo ma credo che saranno gli stessi operatori ad indicarci quanto va modificato e quanto va preservato. Penso inoltre che questo ed altri rischi saranno minimizzati dalla formazione, strumento indispensabile e sempre presente che occorrerà raffinare ancora di più ed utilizzare come leva vera per vincere questa nuova sfida professionale e culturale.

Occorre insomma puntare sulla continuità …

Sì. La difficoltà dei differenti gradi educativi (nido, infanzia, primaria) di comunicare e di fare continuità dipende da diversi elementi. Credo che uno dei più importanti sia la difficoltà per ciascun grado di riconoscere ed apprezzare i saperi specifici dell’altro. Il nostro sforzo si muove perciò nella direzione della costruzione della reciprocità, anche come riconoscimento dei saperi di ognuno che debbono entrare maggiormente in circolazione. E comunque molto è riconducibile alla formazione dei coordinatori pedagogici, del personale docente ed educativo.
In che cosa consiste il progetto di formazione di cui parlava prima?

Abbiamo cercato di coordinare la formazione degli educatori di nido e dei docenti di scuola dell'infanzia partendo da un’idea e da un dato.
L’idea , banale ma non certo scontata, è che la formazione in servizio si rivolge ad adulti già professionalizzati quindi non può né partire da zero, né ignorare le competenze pregresse o le preferenze e le caratteristiche individuali.
Il dato è che stiamo assistendo ad un forte turnover di educatori e insegnanti: un vero e proprio cambio generazionale. Questo ci ha posto nella condizione di dover immaginare una formazione utile per docenti con esperienza pluridecennale e docenti neo assunti.
Continuando a ritenere utile l’idea di professionista colto, pensiamo ad una formazione che travalichi il mondo prettamente scolastico e l’approccio esclusivamente pedagogico cercando di fornire stimoli per far sì che l’insegnante possa davvero sentirsi parte del mondo della cultura oltre che di quello della professione.
Le insegnanti che entrano nelle scuole dell'infanzia dopo il percorso universitario a volte sono molto disorientate dalla distanza tra la formazione teorica e la realtà. Crediamo di dover insistere quindi sui campi di esperienza intesi come dimensioni dello sviluppo, sistemi simbolico-culturali, lineamenti di metodo, esiti e percorsi. Questi infatti è uno dei tratti distintivi della scuola dell’infanzia in generale.
Il piano di formazione cerca di rispondere coerentemente ai requisiti descritti e si articola su diversi contenuti per la costruzione di diverse competenze.
Vengono attivati corsi condotti da esperti con metodologie tradizionali finalizzati alla riflessione su temi generali relativi al contesto ambientale e socio-culturale; corsi operativi per l'approccio alla didattica del fare, con metodologie laboratoriali nei quali gli insegnanti sperimentano direttamente tecniche da utilizzare in sezione; corsi teorico-pratici, condotti da insegnanti di grande esperienza, che affrontano aspetti di contenuto e organizzazione didattica che consentono di valorizzare le competenze del personale in servizio in un vero e proprio trasferimento di competenze che nella scuola solitamente non avviene.

Ormai gli enti locali che gestiscono scuole dell’infanzia sono sempre meno: perché il comune di Modena continua a sobbarcarsi questo onere?

La risposta è semplice: perché al centro delle politiche del comune ci sono i diritti delle persone e quello all'istruzione è un diritto inalienabile. Piuttosto occorre chiedersi come il comune può sostenere questo onere a fronte di riduzioni consistenti dei trasferimenti e di una sempre più accentuata complessità gestionale ed organizzativa.
Alla questione dei costi facciamo fronte con le scelte di bilancio (le risorse non sono carenti in assoluto ma anche in relazione alle scelte che si fanno), con scelte di politica tariffaria e di contrasto alla morosità, con la ricerca di un equilibrio tra le diverse forme di gestione delle scuole che hanno ovviamente diverse ricadute sulle casse comunali.
A quest'ultimo problema risponde il sistema misto-integrato.
Misto significa a gestione mista, composto cioè da scuole comunali 35%), convenzionate (12%), convenzionate FISM (35%) e statali (18%).
Integrato significa che abbiamo nel tempo costruito strumenti in grado di rendere omogenea rispetto ad alcuni criteri, l'offerta per i bambini modenesi.
Alcune azioni sono interessanti esempi di integrazione e governo del sistema.
La prima: esiste un centro unico di iscrizione per tutte le scuole dell'infanzia cittadine, gestito dal comune, che non solo raccoglie materialmente le iscrizioni ma definisce annualmente gli stessi criteri di accesso coinvolgendo i dirigenti scolastici che li deliberano nei rispettivi Consigli di Circolo, le circoscrizioni, le direzioni delle scuole convenzionate. Questo determina pari condizioni di accesso, evita le doppie iscrizioni, consente al comune di offrire posti non scelti ad eventuali bambini in lista d'attesa per scuole troppo richieste. Inoltre, proprio per mantenere il sistema in equilibrio, da alcuni anni i genitori possono scegliere un massimo di sei scuole due delle quali statali, due comunali e due convenzionate: accorgimento che si è rivelato strumento utile per ridurre il fenomeno dell'affollamento di stranieri nelle scuole statali.
La seconda: il comune, oltre ad investire sulla formazione per i propri docenti, si occupa anche di sostenere quella dei docenti delle scuole convenzionate: negli appalti, ad esempio, inseriamo una premialità relativa al monte ore di formazione garantito ai docenti; inoltre la formazione rivolta agli insegnanti comunali è aperta anche a quelli delle scuole convenzionate.
La terza: abbiamo istituito un ufficio qualità che lavora soprattutto con le scuole convenzionate, sulla base di due idee condivise: l’autonomia delle scuole paritarie non è in discussione; il comune ha il diritto / dovere di controllare quella parte di finanziamento che mette a disposizione delle scuole convenzionate perché si tratta di denaro pubblico. Sulla base di queste idee, ad esempio, è stato possibile introdurre l'effettuazione di controlli degli standard di funzionamento e di alcuni indicatori quali l’autenticità del progetto pedagogico.

Che cosa intende per autenticità?

Quanto viene scritto nel progetto pedagogico deve trovare un riscontro nel fare. Se nel progetto pedagogico c’è scritto che l’ambiente è l’elemento che sostiene il progetto, non possono esserci cartelloni confezionati esclusivamente dall’insegnante, mancanza di prodotti dei bambini, assenza di qualsiasi forma di documentazione.

Questo che cosa ha determinato?

Una apertura di dialogo dove , con molto rispetto e con tutta la calma che ci vuole in questi casi, si sono avviati alcuni percorsi virtuosi.
La costruzione di un rapporto via via sempre più costruttivo: i nostri controlli non sono certo finalizzati a sanzionare inadempienze, ma ad accompagnare la crescita pedagogica di tutto il sistema e a ricevere sollecitazioni dalle migliori esperienze. Ad esempio alcune grandi cooperative che gestiscono scuole convenzionate hanno maturato esperienze sulla qualità molto diverse da quelle attuate dal comune ma assolutamente interessanti: in un sistema che funziona tutti possono e debbono imparare da tutti.

Quindi, se dovesse sintetizzare le politiche del comune di Modena rispetto alle scuole dell'infanzia, cosa potrebbe indicare?

Innanzi tutto la scelta di non ridurre l'offerta di servizio in relazione alle diminuite risorse economiche.
In secondo luogo l'attenzione a tenere viva ed aggiornata la cultura dell'infanzia presente nei servizi come lascito del passato ma anche come dimensione costantemente rinnovata e rapportata alla contemporaneità.
Inoltre la manutenzione del sistema misto-integrato attraverso azioni concertate che ne ottimizzino i vantaggi in termini di accesso, qualità erogata, finalità condivise.
Infine la cura del personale docente che è la risorsa primaria della scuola, cura intesa come valorizzazione del personale stesso e formazione in servizio.